Abbiamo intervistato in esclusiva Giancarlo Abete, presidente della FIGC dal 2007 al 2014, al momento in Francia per Euro 2016. Gli abbiamo chiesto come mai l’Italia è ancora così indietro rispetto al calcio femminile e cosa si sta facendo per colmare il gap con altri paesi europei.

Come mai il calcio femminile ancora non riesce a decollare in Italia?
C’è senza dubbio un problema culturale: per molte persone è difficile declinare il calcio al femminile. C’è la convinzione che sia uno sport che non veda strategicamente le donne come protagoniste, al contrario di pallavolo e tennis. Poi c’è il tema della struttura societaria. Negli sport di squadra sarebbe importante avere alle spalle strutture organizzate ed efficienti, che abbiano le risorse sufficienti da poter investire. Infine c’è un problema di impiantistica sportiva: le stesse scuole italiane non facilitano la possibilità, fin da bambini, di poter praticare questo sport. Tutte queste motivazioni hanno fatto sì che il numero di tesserate in Italia sia sempre stato molto ridotto rispetto ad altri paesi, in particolare quelli del Nord Europa. Ma anche Francia e Spagna, che sono Paesi mediterranei come l’Italia, hanno avuto una risposta migliore in termini di tesseramento.

C’è un problema legato al professionismo nel calcio femminile?
Ci sono state delle iniziative parlamentari finalizzate a riconoscere il professionismo ai massimi livelli del calcio femminile. Non è facile perché le garanzie che possono dare i provvedimenti legislativi devono sempre fare i conti con la realtà. Ad oggi è economicamente difficile per un club femminile fare la Serie A, anche se è una competizione dilettantistica, immaginiamo quindi quanti vincoli ci siano nel professionismo. Il professionismo inoltre passa attraverso investimenti economici che oggi non sono raggiungibili. La FIGC si sta sforzando a coinvolgere i grandi club professionisti, quelli con più storia e più tradizione, per cercare di far sì che loro stessi sia in grado di dare luogo a una squadra femminile. Ovviamente fruire di un’organizzazione importante come quella di un club professionistico maschile di serie A aiuterebbe anche l’organizzazione di un club e di una squadra al femminile. Alcuni stanno andando avanti in questa direzione, come per esempio la Fiorentina.

Cosa si può fare per far uscire il calcio femminile dalla condizione di subalternità?
Il calcio è una realtà privatistica e quindi risente delle scelte dei soggetti che investono. Perciò si sta cercando di portare avanti una forte operazione di convincimento e responsabilizzazione nei confronti dei soggetti privati che possono essere promotori di uno sviluppo del calcio femminile. Naturalmente, se molti grandi club investissero nel calcio femminile si prenderebbe l’abitudine, anche da parte dei tifosi, di considerarli anche al femminile. C’è poi da superare un retaggio culturale, perché il nostro Paese, soprattutto in alcune aree, non percepisce il calcio femminile come uno sport adatto alle donne e quindi. Ci sono anche grandi eventi, come la finale di Champions League femminile a Reggio Emilia, che testimoniano il fatto che si può fare un calcio-spettacolo anche a livello femminile.

Questa finale in Italia potrebbe essere di buon auspicio per il calcio femminile nostrano?      
Sì, è stato fatto uno sforzo da parte della Federazione e della Uefa. La Uefa incentiva la pratica del calcio femminile in tutti i 55 paesi che ne fanno parte. Ci sono dei fondi ad hoc per il calcio femminile che servono proprio a far crescere la partecipazione delle tesserate in questa area sportiva. Si lavora molto sui tecnici, perché oltre ad avere una partecipazione in termini quantitativi, è importante dare delle risposte in termini qualitativi, per incentivare gli aspetti spettacolari che attraggono tifosi, sponsor e televisioni.

Pochi sponsor, poche trasmissioni in tv delle partite: è un problema?
Sì, è un problema. Bisogna tener conto, mantenendo una capacità critica, che sponsor e tv rispondono a delle logiche di costo-beneficio. Quando la Federazione cede i diritti-tv per le partite della nazionale cerca di fare un pacchetto complessivo, con all’interno l’opportunità di trasmettere alcune partite di calcio femminile e delle nazionali giovanili. Quindi si cerca di utilizzare il potere contrattuale, che deriva dal fatto di poter trasmettere una partita della nazionale italiana di calcio che interessa milioni di tifosi, per trainare anche la ripresa di eventi tv come le nazionali giovanili e il calcio femminile. Nonostante il numero delle tesserate sia ridotto, le nostre nazionali hanno sempre avuto dei risultati più che dignitosi, anche nei ranking internazionali. Manca però l’attività di base e non ci sono grandi club che consentano poi di fare attività significativa sul territorio.

Nel suo periodo di presidenza, cosa ha fatto la FIGC per far crescere questo sport al femminile?
È un problema che è stato valutato insieme alla Lega Nazionale Dilettanti. La Divisione calcio femminile è stata all’epoca creata per dare maggior visibilità ai campionati nazionali, ma poi è diventato di nuovo un dipartimento della LND. In questa direzione abbiamo costituito anche un gruppo di lavoro, con la presenza dei rappresentanti dei calciatori, dei tecnici e degli arbitri, di tutte le leghe. In questa direzione la Federazione sta cercando di accentuare l’impegno anche con l’attuale presidente Carlo Tavecchio, che è anche al vertice della LND. Tavecchio conosce perfettamente queste problematiche per averle vissute direttamente prima della sua elezione a presidente federale, sia nella qualità di presidente della Lega nazionale dilettanti, che in quella di vicepresidente della Federazione. Si sta cercando soprattutto di creare un rapporto più virtuoso con i grandi club, ritenendo che un traino del calcio professionistico possa accelerare una crescita del calcio femminile.