Maria Lombardi, nella rubrica “Mind the gap” dei Il Messaggero, cita il calcio femminile nel percorso di affermazione dello sport al femminile:

«Un’Olimpiade femminile? Non sarebbe pratica, interessante, estetica e corretta». Così sentenziava Pierre de Coubertin, inventore dei moderni Giochi, poco più di un secolo fa. E ci sono voluti anni e anni di ostinate battaglie, record e provocazioni per sbriciolare il muro dei pregiudizi. Le campionesse hanno vinto le medaglie ma anche le resistenze, hanno scavalcato gli ostacoli in pista e lungo la loro strada, hanno osato e scandalizzato per poter salire sul podio e da lì aprire nuovi orizzonti. Campionesse ribelli, appunto, dal titolo del libro di Sandro Bocchio e Giovanni Tosco (appena uscito con Aliberti). Trenta storie di sport per ragazze intrepide. «Protagoniste esemplari – scrivono gli autori – che con le loro scelte e i loro gesti non soltanto hanno rovesciato preconcetti antichi e purtroppo sempre attuali, ma nello stesso tempo hanno saputo cambiare la storia»

Ed eccole le trenta ribelli. Enriqueta Basilio, una ventenne di Puebla, Baja California, nel 1968 a Città del Messico – campionessa di atletica leggera – accende la fiamma olimpica, nessuna prima di lei. Parigi 1900, 22 atlete in gara, la tennista inglese Charlotte Copper è la prima a vincere una gara olimpica. Alice Coachman Davis, medaglia d’oro nel salto in alto a Londra 1948, prima campionessa di colore. Il padre, stuccatore londinese, cerca di dissuaderla: sei donna e nera, non potrai farcela. Alice non può allenarsi sulla pista d’atletica con i bianchi, corre lungo le strade sterrate e sui campi, spesso a piedi nudi. Ci crede e vuole cambiare le cose. Il calcio è roba da uomini? Sì, ma fino a quando, nel 1894, Florence Dixie fonda la squadra British Ladies Football Club. «È un atto politico, sociale, di protesta».
«Nawal, c’è il Re al telefono». Nawal El Moutawakel, medaglia d’oro nei 400 ostacoli ai Giochi di Los Angeles del 1984. La prima volta per una donna musulmana e per l’inno del Marocco. Ondina Valla a 16 anni non ha rivali nella corsa ad ostacoli, viene convocata per i Giochi di Los Angeles del 1932. Sarebbe l’unica donna della spedizione, si oppone anche la chiesa e non la lasciano partire. «Mi dissero che avrei creato problemi su una nave piena di uomini. La realtà è che il Vaticano era contrario allo sport femminile». Partecipa ai Giochi di Berlino 1936: primo posto, record mondiale.
Wilma Rudolph, ventesima di ventidue figli di una famiglia poverissima, a Roma 1960 si addormenta a bordo pista prima della semifinale dei 100 metri, «si sveglia giusto in tempo per arrivare prima, eguagliando il mondiale in 113». Il dissenso di Vra áslavská, la più grande ginnasta nel mondo alle Olimpiadi 1968, in Messico. Sale sul pennone più alto la bandiera rossa con la falce, il martello e la stella. Vra gira lo sguardo. La sua reazione non passa inosservata, quando torna in Cecoslovacchia il regime la punisce: non può gareggiare, non può viaggiare, non le viene consentito di lavorare. Per sopravvivere va a pulire le case.
E poi Kathine Switzer, che a Boston vince i pregiudizi di chi era convinto che le donne non potessero correre la maratona. Simone Biles, l’atleta con il maggior numero di medaglie nella storia della ginnastica, Maria Toorpakai Wazir che sconfigge le rigidità dell’Islam diventando campionessa di badminton, i traguardi di Bebe Vio. E quelli delle altre atlete in gara contro le altre e contro gli stereotipi. Quando lo sport è anche una rivoluzione.

Credit Photo: Football Paradise