Nel calcio ci sono storie di donne e di uomini che ci insegnano qualcosa al di là dello sport. Margherita Moni, giocatrice classe ‘97 della Lucchese Femminile, indossa la fascia sul campo e vuole essere chiamata capitana. Margherita ci racconta il motivo di questa scelta e ci offre un bellissimo spunto di riflessione sugli stereotipi di genere.

 

Hai iniziato a giocare con i maschi, com’è stato?
“Quando giocavo con i maschi ci sono stati momenti difficili. I miei compagni mi escludevano perché non digerivano che una ragazza si dimostrasse per certi aspetti più forte di loro. In quegli anni il calcio femminile non era come adesso. Nel territorio della Media Valle Garfagnana non c’è mai stata una squadra femminile o una scuola calcio tutta al femminile ed io dovevo andare fino a Lucca. Da un punto di vista delle emozioni non è stato semplice, ma io sono stata determinata. Ancora oggi una ragazza che gioca a calcio è vista con stupore.”

Perché vuoi essere chiamata capitana?
“Il linguaggio è importante, il modo che ha una società di parlare è il modo in cui tratta le persone. Mi piacerebbe che chi incontro mi chiami capitana perché sono una donna.  Non sono il capitano, ma sono la capitana e prendo quello che mi spetta. Ci sono ancora troppe donne che hanno un ruolo di rilievo alle quali è dato un sostantivo maschile (ad esempio avvocato). Queste donne che si trovano in una posizione di spicco hanno la possibilità di parlare per tutte le altre. Una donna che fa l’avvocata non si dovrebbe far chiamare avvocato. Chiamiamo le cose con il loro nome. È per questo che preferisco che mi sia attribuito un nome declinato al femminile.”

La parola “capitana” è un errore grammaticale?
“La paura di cascare in errori grammaticali è un freno che hanno tante persone. Io dico sempre che se hanno coniato la parola “petaloso”, perché non è possibile declinare al femminile un sostantivo? Il linguaggio si modifica nel tempo, vengono create parole nuove ed altre diventano inusuali. Per esempio, una volta usava dire la parola “mongoloide” o “handicappato”, era proprio sui manuali di diagnosi delle disabilità. Adesso tutti noi diciamo “persona con disabilità”. Non è per essere politicamente corretti, è un’evoluzione della lingua in base ai diritti ed alla dignità delle persone. Le regole sono state modificate a seconda delle esigenze. Facciamolo anche nel campo del femminile e del maschile.”

Perché è importante per te essere chiamata capitana?
“Facendomi chiamare capitana io ho la possibilità di dire ad una bambina: “Anche tu puoi diventare una capitana”. È come dire a tutte le ragazze che questo non è solo un ruolo maschile. Puoi farlo. L’orecchio non è abituato a sentire capitana, ma è solo una questione di abitudine. Mi faccio chiamare così perché una bambina che si chiede cosa vuole diventare da grande possa scegliere di diventare capitana, avvocata, sindaca. Se queste parole non sono utilizzate sembra qualcosa di irrealizzabile.”

Di cosa parla la tua tesi di laurea?
“Nella mia tesi di laurea in Scienze dell’Educazione ho analizzato la visione che trasmettono le pubblicità. Le donne sono ritratte come utilizzatrici del prodotto, mentre gli uomini sono rappresentati per la maggior parte come esperti. Attraverso la pubblicità si creano e si fortificano gli stereotipi di genere.

Come si possono combattere gli stereotipi di genere?
Potrebbe aiutare parlarne a scuola e nei contesti di educazione, mettere a conoscenza bambini e bambine che le cose nella nostra realtà funzionano in una certa maniera che però non è detto che sia quella giusta. Si dovrebbe fare un percorso di educazione di genere.”

 

Photo Credit: Studio 110