Dalla parte delle bambine, anche nello sport. Perché oggi, in Italia, sono in gabbia. I condizionamenti nella scelta della disciplina agiscono in modo ferreo, come dimostrano impietosamente le cifre. Esiste, da questo punto di vista, un “caso Italia”. Perché solo nel nostro Paese, anche in rapporto a Nazioni confinanti o a noi socio-culturalmente molto affini, opera un ostracismo di fatto agli sport di contatto e combattimento. La più grande rivoluzione sportiva dalla reinvenzione in chiave moderna dell’agonismo, cioè dalla fine dell’Ottocento ad oggi, è l’esplosione della pratica del calcio femminile, tuttora in corso. Grafici impennati: dagli Stati Uniti all’America del Sud, dall’Europa del Nord al Giappone, milioni di praticanti si sono rovesciate negli ultimi 10-15 anni sui campi verdi. Dovunque, proprio dovunque, tranne che in Italia, una delle patrie del calcio, dove le tesserate sono poco più di 22 mila, a fronte di un esercito di un milione e centomila calciatori. Numeri risibili, tre o quattro volte inferiori anche rispetto alla Francia confinante o alla latinissima Spagna, dove l’espansione del calcio-donne è recentissimo

Maschiacci

Noi restiamo ai margini. Controprova: la geografia della pratica dello sport in Italia confina la grande massa delle atlete (che comunque nel totale sono ancora molto lontane da una parità con gli uomini) in discipline ritenute più “femminili”. Gli stereotipi di genere e i pregiudizi sono purtroppo molto diffusi anche fra le donne stesse: le madri tendono ad indirizzare in grande maggioranza le loro bimbe in sport dove, incredibile a dirsi, la “femminilità non sia a rischio”, dove cioè non vi sia il pericolo di diventare “maschiacci”, altra espressione tipica che nasconde solo un modello maschilista di sport e di società. Se parliamo di sport, ma non solo, temperamento e aggressività nel nostro Paese sono ritenuti sinonimi di virilità: e così dalla metà degli anni 80 (e sarebbe interessante approfondire il perché, mettendo in relazione il fenomeno con l’affermarsi di deludenti modelli femminili, come quello delle “veline”), hanno cominciato a declinare in campo femminile tutti gli sport di contatto: non solo il calcio, che non è mai decollato, ma per esempio anche il basket, che pure negli anni 60 e 70 era lo sport di squadra più praticato dalle donne.

Perdere la femminilità?

Non è certo il caso di demonizzare le discipline di maggior pratica sportiva delle donne: tutto è preferibile all’analfabetismo motorio, sul piano culturale e salutistico. E non vanno nemmeno sottaciuti i progressi che, in un’ottica storica, hanno comunque compiuto le donne: ne è una riprova la composizione della squadra olimpica di Rio che per l’Italia vedeva una sostanziale equivalenza numerica con gli uomini. Ma resta la disomogeneità dell’approccio sportivo, la sottile disapprovazione sociale per scelte “non convenzionali”, il peso sostanziale di una “minorità” nel quale viene confinato l’agonismo delle donne, soprattutto in Italia. Tutto ciò si riverbera anche sull’impatto spettacolare degli stessi sport e quindi sulle loro fortune economiche che innestano meccanismi virtuosi di visibilità e reclutamento: lo spettatore medio maschio fa confronti assurdi fra le possibilità tecnico-atletiche di un uomo e di una donna. Un momento di grande arretratezza culturale, purtroppo molto italiano, soprattutto se si considerano le grandi folle che altrove assistono, negli stadi e in tv, ai grandi eventi internazionali di calcio femminile. Non esiste uno sport più maschile o femminile di un altro, deve esistere solo il piacere di praticarlo senza barriere culturali: un assunto piuttosto semplice e inattaccabile. Ma non ancora patrimonio della nostra società dove molti credono che la femminilità si possa “perdere” come un portachiavi o l’ombrello.

L’appuntamento in Triennale

Venerdì 9 settembre ore 10.00
Triennale Lab
PAZZE PER I TACCHETTI
Rompere gli schemi di gioco e di vita: (ri)prendiamoci il calcio e altri sport di contatto
Con Marina Calloni, professora di Filosofia Politica e Sociale, Università degli studi di Milano-Bicocca, Zineb Sarairi, calciatrice tunisina, Katia Serra, ex calciatrice azzurra e opinionista RAI
A cura di Franco Arturi e Alessandro Cannavò
La pratica del calcio femminile sta esplodendo: grafici di adesione impazziti in tutti i continenti. È il fenomeno sportivo più rilevante degli ultimi anni. Solo l’Italia è ai margini di questa avanzata: le cifre di tesseramento delle calciatrici sono immobili e rappresentano una minuscola frazione della pratica maschile. Le famiglie giocano contro l’eventuale scelta di una bimba a favore del pallone. Il falso mito di discipline “più femminili” di altre si accompagna a quello della “virilizzazione” per la pratica di specialità di contatto. Anche da tutto ciò si intravede un modello di donna lontano da processi di emancipazione.

1 commento

  1. Io ho non una ma ben 2 figlie che giocato a calcio e non ho avuto mai nessun tipo di problema perché lo sport di qualsiasi cosa si tratti è una scelta unicamente di chi lo pratica e mi riempie di orgoglio quando vedo le mie figlie correre felici e fare ciò che amano viva il calcio femminile viva lo sport

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