Credit: "Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il Duce", Federica Seneghini, Marco Giani, Solferino Editore

Milano,1933. Il Fascismo imperversa in ogni dove da più di dieci anni come conseguenza della famosa Marcia su Roma. Quell’anno un gruppo di ragazze (alcune giovanissime) decidono, quasi per scherzo, di voler dar vita a una delle loro passioni più grandi: giocare a calcio. Non bastava più tifare dagli spalti, gridare i nomi dei loro giocatori preferiti e incitare le loro squadre, volevano anche loro vivere questo splendido sport in maniera attiva, da protagoniste. Ma non avevano fatto i conti con un periodo storico che ben presto avrebbe tarpato loro le ali. Queste ragazze, avevano un sogno, all’epoca irrealizzabile, che ha permesso però a tante donne al giorno d’oggi di vivere il calcio serenamente, volendo anche tentare, se volessero, la via del professionismo.
Sognatrici, pioniere ma prima di tutto donne che non hanno fatto altro che cercare di abbattere dei pregiudizi insensati legati al binomio “calcio-donna” che vedevano in questa disciplina sportiva l’emblema di quello che per il fascismo era sinonimo di “virilità”…
2019, Mondiali di Calcio Femminile, Francia. In quella calda estate, Barbara Bonansea ha appena messo a segno il suo secondo goal che farà portare a casa la vittoria all’Italia contro l’Australia: é la prima partita delle azzurre in questa competizione, il sogno di quelle #RagazzeMondiali era appena iniziato. Federica Seneghini, giornalista del “Corriere della Sera”, decide di scrivere un articolo che ripercorra le tappe della storia del calcio femminile. Chiede aiuto a Marco Giani, storico e insegnante (suo il saggio molto interessante in fondo al libro sul calcio femminile), che la indirizza verso quelle eroine che fondarono il Gruppo femminile calciatrici milanese, la prima squadra di calcio femminile italiana, facendo nascere così il libro “Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il Duce” che vuole mantenere viva la memoria di queste prime giocatrici.
Abbiamo incontrato Federica Seneghini per una chiacchierata su questa incredibile avventura di queste donne che, giocando, volevano solo divertirsi ma soprattutto volevano esprimere sé stesse.

Federica, raccontaci di com’è nata l’idea di questo libro?
“É nata nell’estate del 2019 durante i mondiali femminili: io dovevo fare un articolo per il Corriere della Sera che ripercorresse un po’ le tappe della storia del calcio femminile nel nostro paese e ho trovato la storia di queste ragazze, poi ho conosciuto Marco Giani, storico dello sport . L’ho intervistato, in seguito abbiamo iniziato a collaborare per sviluppare il progetto di quello che poi è il libro. Il libro è un romanzo che contiene anche un saggio che ha fatto lui e contiene quindi questa doppia veste di narrazione e di approfondimento, l’idea è nata da lì, il voler cercare di capire l’origine dei pregiudizi legati al calcio femminile e ripercorrere anche la storia del calcio femminile nel nostro paese.”

Buona parte del lavoro del libro si è basato su dei documenti d’archivio.
“Sì, Marco Giani aveva già raccolto tutto il materiale cartaceo, quindi gli articoli usciti tra il 1932 e il 1933 . Il mio compito è stato quello di dargli un senso logico di narrazione perché ovviamente si è dovuto poi ricostruire la storia, mettere le cose in ordine, creare la narrazione, i personaggi…Il materiale a disposizione erano i suoi studi accademici e gli articoli di giornale. In seguito abbiamo anche avuto modo di conoscere Grazia Barcellona, nipote di due giocatrici protagoniste di questa vicenda, siamo andati proprio a casa sua nel 2019, all’epoca aveva novant’anni ma si ricordava bene della storia di queste ragazze: abbiamo fatto una chiaccherata e ci ha mostrato le foto della sua famiglia. Purtroppo la signora Grazie è venuta a mancare due mesi dopo il nostro incontro per cui non ha mai visto l’uscita del libro, ma lei era l’ultima testimone oculare di questa storia. É stato molto emozionante conoscerla.”

Possiamo dire che il calcio italiano è nato nel 1933 a Milano grazie a queste ragazze. Fino a che punto è romanzato il tuo libro?
“Sì, per essere più precisi era tra il 1932 e il 1933. Il libro è un romanzo storico, basato su documenti reali per cui le lettere, gli articoli di giornale sono tutti assolutamente autentici. I personaggi sono tutti realmente esistiti , chiaramente i dialoghi sono inventati, altri dettagli anche sono stati ricreati con la fantasia per dare un senso al romanzo. Ma i fatti su cui si basa sono reali come i campi dove giocavano le ragazze, le date, i personaggi sono tutti reali, tutti tranne il personaggio della Lucchese (che nel libro ho chiamato “Lucchi”) ma per il semplice fatto che su di lei non abbiamo molte informazioni.”

Una cosa che mi ha colpito molto, e che mi sono quindi chiesta in seguito, è stato: perché tutto questo accanimento proprio su questa disciplina sportiva? Il Fascismo accettava uno sport come poteva essere il basket che anch’esso è molto di contatto dopotutto.
“Sì esatto, il basket era accettato e addirittura incoraggiato dal regime. La spiegazione che ci siamo dati sia io che Marco (Giani) è che molto probabilmente il basket non era uno sport di contatto come lo è oggi, aveva regole diverse. Poi se si vanno a vedere i filmati autentici dell’epoca si può notare che a quel tempo giocare a basket non prevedeva contatti, ossia al minimo contatto l’arbitro fischiava e interrompeva il gioco, era uno sport quindi con meno scontri come può invece essere oggi. Invece il calcio ha sempre avuto le regole che ha oggi, per cui si tratta di uno sport che prevede anche spintoni, scivolate…Era quindi visto come uno sport in cui la donna perdeva la grazia: “graziosa” è l’aggettivo che rincorre sempre la donna fascista, giocare a calcio avrebbe secondo loro fatto perdere questa caratteristica.”

Si tratta quindi di una pura costruzione culturale che non ha né capo né coda: se si volesse vedere un’altra ottica andando oltre Oceano negli Stati Uniti il primo sport per le donne è praticamente il calcio.
“Assolutamente sì, è una forzatura sociale e legata all’ambiente storico del paese in cui avvengono questi eventi. La storia delle nostre “Giovinette” é totalmente italiana e legata  al contesto, se andiamo appunto negli Stati Uniti troviamo una concezione totalmente diversa: qui è quasi uno sport “da donne” .”

Io sono cresciuta negli anni ’90 e non ho mai capito perché nell’ora di educazione fisica le femmine dovessero per forza giocare a pallavolo e i maschi a calcio. A proposito di contesto scolastico: ho visto che avete portato il libro anche in diverse scuole italiane, immagino non solo per promuovere il vostro lavoro ma anche per dare ai ragazzi, futuri adulti un domani, una visione più inclusiva dello sport e in particolar modo del calcio femminile. Come sono andati questi incontri?
“Sì, abbiamo fatto molte presentazioni in diversi contesti tra cui appunto anche le scuole; abbiamo presentato il libro sia a bambini delle elementari, a ragazzini delle medie e ragazzi delle superiori. Sono stati davvero attenti e interessati, hanno posto anche domande non banali…Andare nelle scuole ti mette a contatto con le nuove generazioni, anche io come te ho vissuto questa differenza nell’ora di educazione fisica dove le femmine dovevano giocare a pallavolo e i maschi a calcio. In Italia il calcio é ancora visto come uno sport da maschi, di sicuro non come trent’anni anni fa, ma in molti ambienti, già solo  per quanto riguarda la differenza tra nord e sud Italia la differenza è notevole. É una storia che si presta bene anche per spiegare ai ragazzini che cos’era il fascismo, cosa significava anche essere bambini e ragazzi durante questa dittatura perché lo sport è una materia che viene vissuta molto da vicino. Sapere che le donne non potevano continuare con la loro passione è qualcosa che li ha sorpresi, oggi i pregiudizi sì esistono ancora ma diciamo che nessuno ti vieta di giocare a calcio.”

Leggendo il libro vengono fuori delle definizioni o affermazioni, a mio avviso, abominevoli sul calcio femminile: “l’antisport“, “il calcio non è sport per signorine” giusto per citare Guido Ara, che fu mediano della Pro Vercelli e uno dei giocatori italiani più forti di sempre e che visse proprio in quell’epoca. In un’intervista tu stessa hai dichiarato che nel ventunesimo secolo persone anche vicine a te hanno dichiarato che il calcio femminile non è “né calcio né femminile”. I preconcetti esistono ancora purtroppo anche se le cose stanno migliorando. Tornando al libro, volevo chiederti chi erano le cosidette “tifosine”?
“Era un termine che veniva usato allora per indicare quelle donne che hanno iniziato in quel periodo ad andare allo stadio per appunto fare il tifo dagli spalti. Potevano andare con delle amiche, da sole, non necessariamente accompagnate da qualcuno che fosse il padre, il fratello o il fidanzato. Le potevi ritrovare in curva, dotate di sciarpa e stemmi vari della squadra del cuore e la parola con la quale si indicavano era una sorta di vezzeggiativo per far capire che comunque erano un qualcosa di nuovo. Il calcio era lo sport per eccellenza in Italia già da tanti anni ma il fascismo diede una grande spinta per farlo diventare sport nazionale facendo costruire ad esempio degli stadi: molti degli stadi che esistono tutt’ora nacquero nel Ventennio, si pensi solo al Dallara di Bologna che fu costruito per volontà di Leandro Arpinati, uno dei gerarchi fascisti più vicini a Mussolini. Il Fascismo puntò molto sugli sport di massa anche su altre discipline che avrebbero poi concorso in vista delle olimpiadi del ’32 e del 36- Le nostre “Giovinette” ebbero vita breve però perché furono indirizzate verso discipline come la corsa ad ostacoli, la corsa campestre…Il calcio sicuramente non era previsto. Una delle cose interessanti è anche che amavano giocare a calcio ma erano al tempo stesse molto tifose e questo lo sappiamo perché  come dicevo prima abbiamo intervistato delle persone e giusto settimana scorsa io e Marco siamo andati a casa del figlio di Nina Voltoni che nel romanzo non c’è perché non siamo mai riusciti a contattare gli eredi, mentre ora siamo riusciti a contattate il figlio che ci ha accolto in casa sua e ci ha mostrato le foto della mamma: la signora è mancata vent’anni fa e ci ha detto che fino all’ultimo è stata tifosissima dell’Inter e amava dire alla nipote (anch’essa presente al nostro incontro) che grazie a lei le donne ora possono giocare a calcio( ride)!”

Queste giovinette hanno accettato dei compromessi pur di poter giocare.
“Queste ragazze avevano tutti tra i 16 e i 26 anni. Conoscevano la vita della dittatura, non avevano mai vissuto in un paese libero, quindi le regole che gli vennero date le sorpresero ma fino ad un certo punto. Era una necessità che ovviamente non faceva piacere ma sopportavano al tempo stesso per poter fare quello che volevano fare loro.”

Ad un certo punto sembrava che le cose stessero prendendo una piega positiva perché iniziano ad avere un presidente, un allenatore, un sponsor: l’11 giugno del 1933 ci fu la prima partita pubblica tra GS Cinzano e GS Ambrosiano ma per il regime tutta questa situazione inizia a diventare un po’ troppo. Il calcio femminile veniva visto come un” esperimento” che doveva pur sempre avere dei limiti. In seguito a questa partita altre ragazze hanno voluto iniziare a giocare a calcio e voler creare delle squadre, è corretto?
“Esatto, loro tentarono di farsi conoscere in tutti i modi e vollero far capire che il loro non era un esperimento, volevano qualcosa di concreto con delle regole. Sperarono di avere anche l’approvazione del Coni ed ebbero effettivamente così tanta attenzione che questa cosa infastidì il regime tanto che appunto il regime le bloccò a meno di un anno dalla nascita della squadra. Riuscirono a farsi conoscere così bene e questo fu la loro rovina.”

Paradossalmente sì. Arriva poi anche l’idea di regolamentare il tutto attraverso una federazione che però non porterà a nulla a seguito anche dell’arrivo di Achille Starace.
“Sì loro tentarono la via del CONI e della Figc per avere le approvazioni dai maggiori organi sportivi che all’epoca erano fascisti ma l’approvazione non arrivò mai. Poterono giocare fino ad un certo punto e con delle limitazioni: giocare senza pubblico, palla a raso terra, usare gonne lunghe alle caviglie…L’avere pubblicato delle lettere corredate anche delle loro foto fece parlare molto di loro tanto da contagiare come dicevamo prima altre donne con la stessa passione e nacque ad esempio la squadra dell’Alessandria ma ad esempio a Roma o in centri più grandi non nacque nulla. Milano invece in questo senso fu un’avanguardia come lo è tutt’ora, a Milano nacque qualcosa di veramente nuovo. Infatti il Comune di Milano l’anno scorso ha raccolto il nostro appello di voler inaugurare una via per queste ragazze e ora esiste una via chiamata “Via Calciatrici del 1933” e una targa in Parco Sempione. É la prima volta che esiste in Italia una via dedicata a delle giocatrici di calcio.”

Volevo proprio chiederti com’è andato il vostro incontro con Giuseppe Sala quando ha saputo di questa vostra richiesta.
“Quando è uscito il libro abbiamo fatto un appello tramite il settimanale “Sette” del Corriere della Sera e lui non tanto tempo dopo ha risposto tramite Instagram con un post dicendo che Milano avrebbe avuto una strada intitolata a queste donne che hanno fatto grande questa città e che l’hanno resa diversa da tutte le altre. Si temeva che la cosa a causa del Covid avrebbe potuto avere dei tempi molto lunghi e invece l’inaugurazione c’è stata praticamente subito. Sala ha fatto un discorso durante il quale  ha detto che è una squadra che ha fatto grande Milano e che merita quindi di essere ricordata.”

Grazie a questo libro e anche a questa via intitolata la loro memoria continuerà a vivere. Questa storia non si è fermata al libro stampato ma è diventata anche un’opera teatrale.
“Sì, è stata messa in scena da un tris di attrici bravissime che sono Rita Pelusio, Rossana Mola e Federica Fabiani per la regia di Laura Curino presso il Teatro della Cooperativa. L’adattamento drammaturgico è di Domenico Ferrari che è stato bravissimo ad adattare un romanzo che non è comico, ma è riuscito ad inserire delle battute che creano risate amare che però permettono al tempo stesso di far arrivare al pubblico questa vicenda con leggerezza ma anche con una certa profondità. Ha fatto il tutto esaurito, erano previste sei repliche ma siamo giunti alla settima replica anche tanti ragazzini delle scuole che sono venuti a vederlo. Sicuramente non ci fermeremo qui, non sappiamo ancora bene dove ma per ora è andato benissimo. Il teatro è stato una delle forme più belle per raccontare questa storia, poi dopo il Covid è stato bello anche tornare in sala.”

Assolutamente sì, il teatro porta con sé un contatto ancora più diretto col pubblico. Mi hai detto all’inizio di questa nostra intervista che hai iniziato a seguire il calcio femminile grazie anche alla splendida impresa di quelle che sono poi state ribattezzate le #RagazzeMondiali ovvero quella nazionale che ha partecipato al Mondiale 2019 e che ha fatto innamorare di sé l’Italia. Riflettendoci bene queste ragazze non erano ancora professioniste, e si scontravano con Nazionali nelle quali le giocatrici magari erano già professioniste nel loro paese d’origine. Senza dubbio la situazione cambia poi quando si è professioniste rispetto a quando non lo si è. Ci credevi che il professionismo sarebbe mai arrivato? Inoltre , il calcio femminile italiano sta finalmente prendendo la via giusta a tuo avviso?
“Il professionismo era una cosa attesa ma le cose inizieranno a cambiare soprattutto per le nuove generazioni: una ragazzina di 15 anni che ora gioca e vorrebbe intraprendere una carriera da professionista in futuro, andando così a trasformare la sua passione in un lavoro, non solo lo potrà fare ma lo farà anche con delle tutele come il diritto alla maternità, potranno avere tutele a livello pensionistico. Le ragazze che ora sono a fine carriera non beneficeranno più di tanto di questa cosa. É la ragazzina di oggi che vedrà le cose cambiare. Il professionismo alzerà anche la qualità: potrebbe attirare talenti anche dall’estero che sicuramente troverebbero più interessante e anche più competitivo un campionato basato sul professionismo. Attirare nuovi talenti significa anche avere un campionato di livello superiore. Si veda anche solo la Juventus quest’anno: pare che il suo dominio non sia più così scontato come poteva esserlo l’anno scorso, abbiamo più squadre che hanno delle speranze di giocarsi lo scudetto. Il professionismo tocca sia la parte calcistica ma anche quella mediatica la cui esposizione per queste ragazze è sempre più in crescita: prima del 2019 era impossibile vedere partite in chiaro ,ora non ci sono tantissime partite ma si è iniziato a metterne qualcuna su La7, tutto ciò da prestigio e attira tifosi.”

Per concludere, ti chiedo segui il calcio femminile? Tifi per qualche squadra?
“Sì, tifo la Sampdoria Women. Sono milanese di adozione ma genovese di nascita per cui tifo per le blucerchiate.”

La Redazione di Calcio Femminile Italiano ringrazia la gentile disponibilità di Federica Seneghini per questa intervista.