Marta Maffei è una ragazza del 2002 che fa la calciatrice. Nata e cresciuta a Roncadelle, l’ultimo anno Marta ha vissuto in Puglia giocando in Serie B nel Pink Bari, e dopo un lungo cammino calcistico, partendo dal Bettinzoli e dalla primavera del Brescia e passando per Chievo Verona, Hellas e Sassuolo, ora vede il suo sogno realizzarsi.
Marta racconta in questa intervista quello che è per lei il calcio nella sua vita. Una storia in più che serve all’immaginario collettivo.
Ciao Marta, partiamo con una domanda che richiede un piccolo sforzo. Prova a pensare al primo ricordo legato al calcio che ti viene in mente. Cosa vedi?
«Ricordo gli amici. Era il periodo delle elementari e molto spesso di pomeriggio andavo a giocare con loro che erano tutti maschi. Erano molto orgogliosi che io giocassi con loro e alla fine siamo cresciuti insieme: la mia passione è nata così, con gli amici».
Al contrario come si viveva il calcio in famiglia?
«Non c’è mai stata una gran cultura del pallone in casa, anzi i miei erano inizialmente alquanto “bloccati” nei confronti della mia passione. Era mio zio Andrea che mi portava al campetto per giocare, anche se lui è Juventino».
E tu che squadra tifi?
«Inter. Sempre stata interista!».
Parliamo del tuo iter nelle giovanili. Hai incontrato delle persone che porti ancora nel cuore?
«Ho iniziato a 13 anni nella Bettinzoli, ma potevo solo allenarmi perché le altre erano molto più grandi di me. Ai tempi se fossi stata una ragazza non avrei avuto molte alternative a Brescia, anche se le cose sono cambiate negli ultimi anni. Successivamente sono andata nella Primavera del Brescia e poi per un paio di stagioni al Chievo, dove ho anche collezionato le mie prime panchine in serie A. Sono stati anni speciali quelli, ma è all’Hellas Verona, sempre in Primavera, che ho avuto il piacere di essere allenata da Matteo Pachera e crescere calcisticamente: c’era un bel rapporto ed ho potuto imparare tanto con lui».
L’ultima stagione di giovanili al Sassuolo nel 2020 e poi il salto: quest’anno a Bari eri ufficialmente tra le “grandi”. Com’è andata?
«È stato un bel cambiamento. Nel professionismo è tutto diverso, devi misurarti con gente che ha esperienza da vendere. E poi anche trasferirsi in un’altra città, lontano da casa, non è stato facile. Ma fa parte del gioco».
Mi aggancio alla tua ultima esperienza. Cosa significa oggi essere una calciatrice di Serie B, della tua età, in Italia? La tua vita attuale ti permette di fare altro, come studiare, e di avere una tranquillità economica?
«Io mi sento pienamente professionista, anche se in Serie B non sei riconosciuta come tale dalla legge. A Bari mi alleno tutti i giorni, anche più volte al giorno, ma sto allo stesso tempo studiando Scienze Motorie online per garantirmi un’alternativa al calcio. È una vita che richiede sacrifici, soprattutto nel tempo libero, e no, non ho piena indipendenza economica».
Sarebbe interessante tracciare un parallelo con un tuo coetaneo e collega del calcio maschile…vivi o hai mai vissuto differenze legate al genere nel tuo lavoro?
«Il calcio femminile in Italia è ancora indietro rispetto a nazioni come Spagna, Francia, Olanda e per non parlare degli Stati Uniti dove c’è una cultura pazzesca. Qui ci sono tanti pregiudizi a livello popolare nonostante si stia lottando molto per sensibilizzare al tema: guarda che fanno persone come Sara Gama o Cristiana Girelli».
Hai menzionato due grandi giocatrici nonché icone nazionali…nel tuo caso quali idoli hanno alimentato il tuo immaginario e dove li guardavi?
«Da interista ti dico che sono cresciuta con Javier Zanetti! Senza dubbio è lui il mio idolo: sin da bambina lo guardavo in tv o sul telefono giocare nel mio stesso ruolo».
Tanti e tante di noi ricordano ancora i 39.000 di Juventus Women – Fiorentina allo Stadium di Torino del 24 marzo 2019: un record emozionante per il calcio femminile. Che rapporto hai con lo stadio e cosa simboleggia per te tale spazio?
«Per me giocare davanti ad una folla del genere sarebbe un sogno: mi vengono i brividi solo a pensarci. Ora sono ancora all’inizio del mio percorso, ma so che voglio arrivare là. Nella nostra categoria si gioca mediamente davanti a 300 persone, quando va bene, mentre l’esempio dello Stadium è un caso finora piuttosto isolato anche per la Serie A».
Quello che sembra emergere dalle parole che hai scelto in questa intervista è che il calcio femminile non soffre di mancanza di passione o ben che meno di adesioni, attitudine o talento. Quel che manca è piuttosto lo spazio e la narrazione, mainstream in special modo, attorno ad esso affinché entri nei circuiti di massa e nei mercati attirando finanziatori.
«Esatto, sta tutto nel portarlo agli occhi della gente per quello che è. Al momento manca ancora visibilità e ciò impedisce che diventi spettacolo, soldi, garanzie. Nel gioco non c’è genere, faccio le stesse cose che fa un uomo: il calcio è un vivere insieme».
La Redazione di Calcio Femminile Italiano ringrazia Marta Maffei per la disponibilità.