Se dopo 25 anni di carriera, tre scudetti, due coppe Italia, due coppe Uefa e 60 presenze in nazionale un calciatore decidesse di appendere le scarpette al chiodo vai con le paginate sui giornali sportivi. Quando con cotanto curriculum a salutare con garbo, quasi con timidezza, il pallone è invece una calciatrice, vai col web, a tutto social. Dove a Gioia Masia è stato riconosciuto il meritato tributo. Insieme a qualche lacrima.

Ciao erbetta, e addio centravanti avversario da marcare. Perché?
«Ultima di campionato, io col Chieti contro la Roma, dove ho giocato per anni. Ultima giornata, la vittoria ci ha dato la serie A davanti a 3000 persone. Non potevo smettere in modo migliore, io e il mio compagno Giampiero ci siamo messi a piangere tutti e due, ma in cuor mio lo sapevo già».

Una vita nella Torres. Quasi.
«Sono stata fortunata, perché se nasci e cresci in una squadra come la Torres hai le basi per il resto della carriera».

Ma a 23 anni l’ha salutata.
«Era il 2002, ero giovane. Avevo sempre avuto il pallino di esplorare, e di Roma: il sogno era andare a vivere là. Ma la Torres non si discute».

La Torres è finita male, ora cercano di farla rinascere.
Questo periodo di crisi se l’è perso o se l’è risparmiato?
«Un po’ e un po’. Mi è dispiaciuto tanto quando ho saputo del fallimento. Un colpo al cuore, la Torres rappresenta il calcio femminile italiano, è la squadra più titolata, ha fatto la storia dello sport della mia città. Ora spero che la rifondazione riesca, sono la prima tifosa. E’ giusto che la Torres sopravviva, con i suoi titoli sportivi».

Un tempo la Torres era delle sassaresi.
«E’ stato un errore, non curare il settore giovanile. Anche se non è più come 30 anni fa bisogna andare a cercarle, le ragazze. A Roma è diverso».

In 25 anni come è cambiata la condizione femminile, anche nel calcio?
«In meglio sotto certi aspetti ma non vedo tutta questa crescita. In positivo ha contribuito l’avvento di Facebook, è migliorato l’aspetto mediatico perché sui giornali si vedono solo i trafiletti, in tutto lo sport femminile. Un angolino al telegiornale quando vinci una medaglia olimpica. Vale per la scherma, il volley…. Nanosecondi rispetto ai calciatori, che anche quando vanno in vacanza riempiono i giornali. Purtroppo la donna non riesce a esplodere, ad avere visibilità. La gente si stupisce ancora quando dici che giochi a calcio. C’è il tabù omosessualità, poi, ma lo sport non ha sesso, posso giocarci anch’io a calcio e tu puoi fare danza. Ognuno è quello che vuole essere e che è a prescindere dello sport che fa, libero».

Il ricordo più bello?
«Il primo scudetto, 3-1 al Torino all’Acquedotto davanti a 5000 persone. Un sogno. Poi le qualificazioni europee in Sardegna con la Nazionale, la famiglia in tribuna. Cantavo l’inno ma singhiozzavo per l’emozione, andavo fuori tempo e facevo sbagliare le compagne, mi hanno mezzo insultata ma volevo continuare a cantarlo».

Il più brutto?
«L’infortunio a un ginocchio, a 17 anni. Un anno perso. E ogni volta che ho dovuto lasciare una squadra. Ma il calcio femminile è anche questo, compio 40 anni e il lavoro è la cosa più importante».

Sempre in contatto con Sassari?
«Certo, Eleonora e Michele, amicizie che vanno oltre lo sport. Damiana, Angel, sento Roberto Ennas, Gigi Casu, rapporti che durano da 20 anni e più. E Tore Arca, l’allenatore con quale ero più in sintonia. Ci vediamo sempre a Ferragosto, il 14 caschi il mondo sono a Sassari, i Candelieri non si toccano».

Mai pensato di allenare?
«Non mi ispira, ma forse ancora non ho avuto lo stacco totale dal campo».

Ora il lavoro e un gol… particolare. Un figlio.
«L’idea di smettere nasce soprattutto per quello, visto che non sono più giovanissima. Però finché non arriva giocherò nella C regionale di calcio a cinque. Mi ci butterò anima e corpo perché è tutto nuovo, è un altro sport, mi intriga. Non c’è verso, senza competizione non so stare».