Carolina Morace ha rilasciato una lunga intervista alla giornalista Roberta Scorranese del Corriere della Sera. La leggenda del calcio femminile italiano ha scelto il quotidiano nazionale per concedersi ad una chiacchierata in cui si è aperta su tutto. L’occasione è buona soprattutto per sponsorizzare il suo nuovo libro in uscita a breve. Ma è anche il momento giusto per fare “coming out”. Il suo racconto inizia dall’estremo oriente dove dichiara di aver conosciuto la donna della sua vita, l’australiana Nicola Jane Williams. Da lì in poi è un susseguirsi di aneddoti e storie che illustrano una carriera vissuta contro pregiudizi e critiche, rendendola la leggenda che è oggi.

L’amore, la vita, il calcio. Un racconto intenso, di cuore. Come mai proprio adesso?
“Credo che nella vita ci siano dei momenti in cui certe cose diventano naturali. Forse prima non si è pronti. Poi, un giorno, le parole nascono con una spontaneità nuova”.

Il coming out questa volta viene da uno dei simboli del calcio femminile. E sarà importante per tutte le donne del pallone.
“L’ho fatto naturalmente per loro, per le più giovani, ma l’ho fatto anche per molte mie amiche quarantenni o cinquantenni che ancora non trovano il coraggio di raccontarsi”.

Sarà da sprone anche per gli uomini?
“Il mondo del calcio è pieno di pregiudizi e di omofobia. Non biasimo chi non fa coming out. Per molti uomini il non farlo è una forma di protezione. Credo che sia giusto farlo quando si è pronti, quando si è sicuri di poter togliere la maschera e non rimetterla più”.

Quanto è stata importante Nicola in questa scelta?
“Moltissimo. Lei ha ricevuto un’educazione diversa: in Australia, come in molti altri Paesi del mondo, il fatto che due persone dello stesso sesso si amino non interessa a nessuno. Lei stessa, nei primi tempi della nostra storia, quando veniva in Italia, si meravigliava del peso che diamo a queste scelte. E solo con lei sono riuscita a essere vera, senza maschere. Adesso non mi nascondo più”.

Eravamo rimaste alla gaffe fatta a Tokyo. È andata che vi siete sposate due volte.
“La proposta gliel’ho fatta nel giorno del mio quarantottesimo compleanno. Avevo comprato gli anelli, avevo ripassato per ore la frase “vuoi sposarmi?”. Sono una donna tradizionale, sì, anche in questo caso sono rimasta me stessa. E credere che prima nella mia vita non avevo mai pensato al matrimonio. Ci siamo sposate una prima volta a Bristol, sul piroscafo SS Great Britain e poi in Australia”.

Suo padre che ha detto?
“Gli dissi: “Papà, mi sposo”. E lui: “Bene!” “Sì, ma non con un uomo”. “Va bene! Basta che tu sia felice””.

Lui l’ha sempre incoraggiata in campo?
“Se lui avesse pensato — come molti facevano allora e fanno oggi — che il calcio femminile è uno sport per uomini mancati e non ci avesse visto una prospettiva, io non avrei il trofeo della Hall of fame del calcio italiano. Non ho mai detto “Da grande voglio giocare a pallone”, ho giocato e basta. E dico: non chiedete il permesso di fare una cosa che vi fa stare bene. Fatela. Assecondate il vostro talento. Sarà dura, ma vi sentirete vivi, veri e speciali”.

Forse è questo il punto: molti genitori di potenziali calciatrici non vedono «una prospettiva» nel calcio femminile, almeno in Italia. E finiscono per scoraggiarle. È così?
“È anche così. Il punto è squisitamente culturale: da noi il calcio femminile è soffocato da stereotipi che lo rendono poco appetibile, sì, parlo anche di sponsorizzazioni. Dunque, si deve cominciare a scuola, si deve far capire alle ragazze che anche nel calcio ci può essere una carriera e poi, naturalmente, ci si deve attivare perché questo si possa realizzare. E poi ci vuole qualità: il calcio femminile si merita gente intelligente, colta, preparata. Non gli scarti di un mondo, quello maschile, che non li vuole”.

Investimenti, visioni, talento.
“Basta osservare cosa succede nelle leghe femminili che contano. Il modello tedesco garantisce alle società che non hanno alle spalle la forza del maschile 700 mila euro; a quelle professionistiche, 300 mila. Crediamoci e anche quello femminile diventerà un grande spettacolo. Dobbiamo aspirare a un bel gioco, anche nel calcio giocato da donne”.

Lei ha la fama di «sergente di ferro». È ancora così?
“Ma no, diciamo che sono sempre stata una donna molto ferma nelle mie convinzioni. Quando divenni la prima donna ad allenare una squadra professionistica maschile, la Viterbese di Luciano Gaucci, tutti cominciarono a osservarmi e al tempo stesso tutti si aspettavano chissà quale bizzarria da me. Oltre al fatto che si sentivano in dovere, o in diritto, di darmi consigli. Ma devo dire che allora mi trattarono proprio come un collega maschio”.

Le chiedevano se entrava negli spogliatoi.
“Avrei voluto rispondere: “No, mando dei pizzini” o “un piccione viaggiatore””.

Rigore, ironia, coraggio. Forse Morace, più che essere «fuori dagli schemi» ha uno schema tutto suo, che persegue con forza.
“Mi piace appoggiare chi è intelligente e capace, senza ipocrisie. Di certo non sono una donna che supporta un’altra donna solo per appartenenza allo stesso sesso. Allo stesso modo appoggio gli uomini: la persona viene prima del suo sesso”.

Lei ha allenato la nazionale femminile italiana, la canadese e quella di Trinidad, oltre al Milan, per citare qualche incarico.
“Ho una certa esperienza e sempre ho cercato di comportarmi così come i miei schemi mi hanno suggerito”.

Però del calcio femminile si è cominciato a parlare da poco.
“Esisteva ma non c’era. Centinaia di donne giocavano ma erano circondate da pregiudizi, considerate come maschi mancati. L’unico modo per motivare le bambine, dar loro l’ambizione di diventare campionesse vuol dire restituire al calcio femminile la giusta dignità e smettere di considerarlo un parente povero. Se le bambine saranno motivate potrà aumentare il numero delle praticanti e diventerà, forse, uno sport di massa”.

Carolina, ora lei e Nicola volete un figlio.
“Sì, lo desideriamo. Lei ha già una figlia ed è una bravissima madre, mi commuovo nel vederla parlare così intensamente con la sua bambina, il tempo che le dedica e il modo con cui sta seguendo la sua crescita. Non sarà facile per noi, specie in questo periodo in cui spostarsi per il mondo è complicato a causa della pandemia. So già che dovremo avere pazienza, sia per questo che per tutte le difficoltà che incontreremo”.

Però con lei si sente di poterlo fare.
“Nicola mi ha liberato anche di questo timore. In realtà, quando avevo trentanove anni — e lo racconto nel libro — ho provato a diventare madre. Ero una donna single e determinata ma i figli non arrivarono e così smisi di accanirmi. Dovevo solo aspettare. E con mia moglie oggi mi sento nel momento giusto”.

Lei parla di Nicola con un amore che sembra nato ieri, anche se vi conoscete da anni.
“Lei è bellissima, è intraprendente, è dinamica. Pensi che ha cambiato volto alla mia casa, ma intendo dire sul serio, mettendoci le mani: pavimenti, arredo. È pragmatica, diretta, schietta. Così facendo mi ha aiutata a far luce su di me, a capire chi sono”.

E oggi come si definirebbe (in amore) Carolina Morace?
“Sono semplicemente una donna che ama una donna”.

Fonte: Corriere Della Sera