Come in ogni grande e piccola vicenda italica, siamo giaà al tifo e agli ultras da stadio: da una parte chi si indigna per il titolo «Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico» del direttore della testata sportiva QS (sulla prova delle tre arciere Guendalina Sartori, Lucilla Boari e Claudia Mandia), e plaude la sua rimozione a furor di social da parte dell’editore Riffeser; dall’altra chi invece sta col direttore «vittima del politicamente corretto». Una squadra contro l’altra, a colpi di hashtag, scuote i pugni e alza la voce, mentre le atlete postano video spiritosi ma eloquenti e fanno sapere di essere concentrate sulle gare. Poi ci sono i benaltristi, che in Italia non mancano mai, i quali ricordano che nessuno eè mai stato rimosso per titoli ben piuù volgari e offensivi di questo.

Nel chiacchiericcio e nel braccio di ferro agostano, si perde di vista la questione di fondo: è giusto fare un titolo del genere? Secondo me, no. Quanto alla punizione esemplare, mi sembra esagerata, ma l’editore ha il diritto di decidere quel che gli pare. Mi sembra che in Italia non corriamo il rischio di essere troppo politicamente corretti: lo siamo meno che in tutto il resto d’Europa. Mi dispiace dirlo, ma il nostro Paese non ha una sufficiente cultura di rispetto per le donne, né nelle piccole né nelle grandi cose, quindi leggi e regole che tutelino e promuovano il rispetto per il genere femminile e l’uguaglianza tra i sessi – anche nel campo della comunicazione – sarebbero benvenute.

Far commenti sull’aspetto fisico di un’atleta può andar bene al bar o sul divano di casa, ma chi fa informazione ha dei minimi doveri di buongusto, oltre che di correttezza. Non ricordo di aver letto titoli sui tagli di capelli o i fisici dei giocatori di calcio, durante gli Europei. Ma il tema è universale, e molto sentito, tanto che il quotidiano britannico The Guardian ha appena pubblicato un decalogo su come bisognerebbe scrivere delle atlete, partendo dal presupposto che, in gran parte, i commentatori siano disabituati a scrivere delle competenze femminili. In ogni campo, non solo in quello sportivo.

Secondo il Guardian quando si scrive di una competenza femminile bisognerebbe parlare di quello che la persona fa (in questo caso, la sua disciplina e la sua prova sportiva) e non dell’aspetto fisico, di come si veste, di come si pettina o del suo tono di voce; non bisognerebbe mai fare commenti che non si farebbero per un uomo; non bisognerebbe alludere a fidanzati, mariti, amanti; soprattutto non bisognerebbe fare riferimento a quanto la persona di cui si scrive sia più o meno sexy, giovane, carina oppure il contrario.

Sembra banale, ma di fatto non accade, neanche nel resto del mondo, tranne forse nell’Europa del Nord. Se una donna di mestiere non fa la modella o i concorsi di bellezza, si può parlare di quel che fa e non di come appare? Io credo che si debba, e che farebbe un gran bene a tutta la società. «Il modo in cui parliamo delle donne, in particolare delle donne al top dei loro settori, ha un impatto tangibile sul modo in cui trattiamo le donne», scrive il Guardian, e penso che abbia ragione.