Come Raffaella Giuliano anche Beatrice Abati sogna il master, lei in Ingegneria biomedica, con un sogno che le accomuna, giocare a pallone. Prosegue il viaggio nella terra dalla bandiera a stelle e strisce.

Oggi a raccontarsi ai nostri microfoni, come detto, Beatrice Abati, centrocampista della East Tennessee State University (ETSU), classe 1997.

Ti ricordi il tuo primo calcio al pallone?
Ho iniziato a giocare a calcio in casa e all’oratorio grazie a mio fratello Alessandro che è tre anni più grande di me. La casa si trasformava in campi da gioco con sedie o ciabatte come porte. La prima squadra in cui ho iniziato a giocare è stata quella dell’oratorio della mia città in quinta elementare. Da lì, poi, mi sono appassionata e non ho più smesso.

In che ruolo giochi?
Sono un centrocampista centrale, posso giocare sia come mediano che come mezz’ala.

Hai un calciatore preferito o ti ispiri a qualche d’uno?
Il mio calciatore preferito è Claudio Marchisio. Da piccola il mio calciatore preferito era Pavel Nedved.

Il ricordo più bello legato ad una partita?
Sicuramente uno dei ricordi più belli è stato giocare il Mondiale in Costa Rica con l’Under 17 e arrivare terze. È stata un’emozione stupenda e unica. Lo stadio era sempre pieno di tifosi. Negli Stati Uniti, il ricordo più bello è relativo ad una partita giocata lo scorso campionato, quando ho segnato dopo pochi minuti contro una squadra che è la nostra più grande rivale.

Come sei venuta a conoscenza della possibilità di poter partire per l’esperienza negli Stati Uniti?
Negli USA tutte le università tengono in grande considerazione gli sport ed hanno atleti in molte discipline. L’allenatore della squadra di calcio femminile della ETSU mi ha contattato dopo avermi visto giocare per la Nazionale italiana e mi ha offerto questa opportunità.

Com’è stato il primo impatto con la realtà statunitense?
Il primo impatto con la realtà statunitense è stato abbastanza difficile, soprattutto dal punto di vista della lingua e della lontananza dalla famiglia. Poi, però, in poco tempo mi sono abituata, soprattutto grazie alle altre ragazze italiane che erano già là.

Ci racconti il tuo primo allenamento e la tua prima partita?
Mi ricordo che al primo allenamento non capivo ancora benissimo l’inglese quindi mi facevo spiegare gli esercizi dalle altre ragazze italiane. Alla prima partita, invece, ricordo di essere rimasta impressionata da quanto correvano le avversarie.

Ci racconti il significato dell’Italian Mafia?
Italian Mafia è il nome che abbiamo dato al nostro gruppo di italiane, gruppo che per me è una seconda famiglia. Quando sono arrivata negli Stati Uniti c’erano già altre quattro ragazze italiane che poi a mano a mano si sono laureate e sono tornate in Italia. Tra di noi stiamo sempre assieme e ci aiutiamo moltissimo. Hanno reso l’esperienza negli Stati Uniti più bella.

Il mister punta più sulla tattica o sulla fisicità?
Devo dire che abbiamo cambiato da poco il mister. Quello che avevamo prima puntava di più sulla tecnica e sulla tattica provenendo anche lui da un paese europeo, il Galles. Invece, l’allenatore attuale, che è americano, punta molto sulla fisicità, facciamo tantissimi lavori atletici, senza però trascurare la tecnica.

Qual è il livello del vostro campionato?
Il nostro campionato si chiama Southern Conference. È un campionato delle università di prima divisione, quindi il livello delle squadre è buono, soprattutto dal punto di vista atletico.

Conclusa l’esperienza in America, ti piacerebbe continuare a giocare in Italia o andare fuori?
Sinceramente non lo so ancora bene. Mi piacerebbe continuare a studiare (conseguire il master in ingegneria biomedica) e continuare a giocare allo stesso tempo. Mi piacerebbe poter andare in Inghilterra per finire il percorso di studi e giocare lì per una squadra e poi tornare in Italia a lavorare e giocare.