Il pallone come una sfera di vetro che racconta il passato e il presente e al futuro lascia fare; che srotola immagini di un percorso senza fine, di emozioni, delusioni, risa, pianti, discese, risalite e resistenza. Se sei donna e cammini su un pallone, allora sei l’equilibrista di un destino che va, scivola con la corrente a favore e a volte si intoppa, anche di brutto, e barcolla controcorrente, finché non è di nuovo buon vento. Se sei donna e non smetti di camminare su quel pallone, sei Antonella Carta, classe ‘67, figlia della Sardegna per sempre, traghettata nel Continente per un calcio che in Europa contava, che riempiva gli stadi italiani e che si è spento ai Mondiali del ‘99. Se sei Antonella Carta a 49 anni ancora giochi a pallone, non più a calcio a 11 ma a 5. “C’è tanta presunzione qui, dicono che se sei del calcio a 11 non sei buona a giocare a calcio a 5, per me non c’è differenza, la palla è tonda e se sai usare i piedi vai bene sempre”.

NON STA BENE. Era quasi impensabile per una bambina giocare a pallone quaranta anni fa. Ma Antonella in una squadra di calcio, almeno per numero, ci è cresciuta: lei, cinque sorelle, tre fratelli e due genitori fanno un undici perfetto. Chissà che caos… Ride, per lei la sua numerosa famiglia è la normalità. “Vengo da un paesino vicino a Nuoro, con la mentalità chiusa. Quello che pensava la gente condizionava. E infatti all’inizio i miei genitori erano contrari, non stava bene che una bambina giocasse a pallone. Non davo fastidio a nessuno ed ero criticata lo stesso. Poi, però visti i risultati che ho ottenuto, il giudizio è cambiato. Avevo dieci anni e ho seguito la passione di mio fratello Battista, che voleva fare il calciatore e poi si è messo ad allenare. Con lui ho un bel rapporto, anche se abbiamo dieci anni di differenza. Mi ha portato nella sua squadra, ero la mascotte. Poi dalla Nuorese in serie C è partita la mia carriera”.

LA TRAGHETTATA. Succede spesso nelle terre oltre. Si fa valigia e si traghetta oltre mare, infilando in ogni tasca pezzi di terra rosa, di mare cristallino e senza confini, di cieli infiniti, di Sardegna. Il biglietto di sola andata della Carta, quattordicenne, è nella segnalazione che qualcuno fa al Lecce. “Ho passato il provino a Piacenza, mi sembra segnando due gol e sono finita dritta in Puglia. A Lecce ho compiuto 15 anni. E’ stata dura, avevo nostalgia. Mi mancava la mamma, la famiglia, la Sardegna”.

Si tuffa nel grande calcio italiano però, in un baleno, e lo sguardo si distoglie dalla nostalgia. Sceglie di non proseguire gli studi, benché la mamma fosse contraria. “Ci teneva tanto che non smettessi, ma io ero presa dal calcio e pensavo di poterne fare a meno. E poi ero giovanissima, lontana da casa e la scuola non mi piaceva. Oggi mi pento però. E’ stato un errore. E’ un problema serio, non si trova niente. Certo sono sempre impegnata, alleno i bambini, e la sera ho i miei allenamenti fino a tardi, però mi piacerebbe avere un lavoro”.

Il Lecce così è la prima grande squadra, il debutto in serie A e il primo scudetto. Ne verranno altri 5 di titoli e sette coppe Italia e una Supercoppa; 700 presenze in A, 350 gol, 120 presenze in Nazionale. “Ho giocato con le squadre più forti. Io sono la storia del calcio femminile. Trani, gli anni più belli in assoluto. Avevo 19 anni, ero nel pieno dell’attività, spensierata, portavamo dodicimila spettatori allo stadio”. Numeri che il calcio femminile in Italia oggi si sogna. Nemmeno la Nazionale ne tira su tanti. “Da noi non esiste una cultura sportiva, il femminile è gestito da gente che non è all’altezza, alla fine uno si stanca a dire sempre le stesse cose. Abbiamo sprecato tutto. Prima eravamo noi la squadra da battere, ormai in Europa ci hanno superato tutti. Bisogna investire sul serio in questo sport. Ai Mondiali del ‘99 a vedere noi erano in quarantamila. Ma alla finale ce n’erano novantamila, una cosa meravigliosa”.

Dove è andata ha vinto. Dopo Lecce e Trani, si è coperta di tricolore alla Reggiana, al Giugliano Napoli e alla Torres, che stava per diventare la grande Torres. “E’ assurdo che la Federazione non abbia fatto niente per salvare una società come quella, con tutto quello che ha vinto, prima squadra italiana a fare la Champions. Si doveva intervenire”. Un ritorno in Sardegna non è mai un pensiero fuori luogo. “Tutto è possibile. D’estate torno sempre lì, dove ho radici e cuore. A volte mi prende la nostalgia e allora devo partire e andare subito, ma poi faccio fatica anche a starci troppo, insomma è complicato”.

VENTO CONTRO. Tutto fila finché vento brutto si alza all’improvviso e Antonella sei rende conto che non siamo immuni a niente, ma con la schiena dritta affronta l’ignota tempesta. “In sala operatoria mi ci volevano portare con la barella, ma io non ho voluto e ci sono arrivata coi miei piedi. Quando sono entrata ho detto a tutta quella folla di medici e infermieri: “Aspettavate me? Mi sento importante oggi”. Con un po’ di incoscienza. Quanto fosse brutto il tumore maligno che mi hanno tolto dal seno lo abbiamo scoperto in quel momento. E così per colpa del cancro ho dovuto lasciare il calcio a 11 e sono passata al calcio a 5 anche per tenermi in forma. Lo sport è fondamentale nella malattia. Per me è stata una salvezza”.

Il sorriso segue gli alti quando parla di calcio, i bassi quando parla delle frenate della vita. Dicono che il cancro ti segni per sempre… “Io non penso mai in negativo, sono una ottimista. Succedono cose nella vita che non credi possano capitare a te. E invece a me poi è capitato il cancro, ma peggio ancora a 29 anni ho avuto un incidente stradale terribile con la macchina e mia madre è morta. Guidavo io. Andavo a giocare a Sassari e mi ero portata mamma, mia sorella e due nipoti. Ho sofferto come non mai. Sono passati vent’anni e mi fa ancora male male male”. Antonella si commuove, il dolore e l’assenza sono crepe nel cuore. “Sono finita dentro a un altro incidente non segnalato, dritta sotto a un camion. La squadra mi aspettava e io ero in ospedale. Non c’erano i cellulari per avvisare. Per un sacco di tempo mi ha torturato il senso di colpa, poi ho capito che non ci potevo fare niente, che quello era il suo destino. A me hanno dato ottanta punti sulla gamba; mamma è morta dopo 35 giorni di ospedale, aveva la gabbia toracica fracassata: temeva che non tornassi più a giocare a calcio e mi spingeva a riprendere, ma a me non interessava più niente. E invece aveva ragione perché è stato il calcio a tirarmi fuori da quegli anni bui. Ho capito che di crepacuore si può morire davvero. Ecco, se continuassi a pensare a tutto questo, come al cancro, non vivrei più. Mi inorgoglisce parlare di mia madre. Mi bastava una sua parola per tirarmi su. Era una donna distinta e saggia. Eravamo molto legate forse perché ero l’unica figlia lontana. Mia madre parlava poco, al contrario di mio padre che era uno che scherzava sempre. Andava a lavoro anche in autostop, erano altri tempi, non facili, e noi eravamo tanti ma siamo andati avanti lo stesso. Una cosa so: nella vita non bisogna credere di avere il mondo in mano. Il tempo cammina, la vita è un percorso”.

UNICO MARADONA. “Un mito. Mamma mia, l’ho conosciuto quando giocavo a Napoli. Era presidente onorario della nostra squadra e venne a vedere la partita che valeva lo scudetto. E’ sceso in campo e si è messo a palleggaire con noi, uno spettacolo, un’emozione. Io andavo ai suoi allenamenti per copiarlo. Diego è una persona semplice, talento assoluto, è stato usato e invece andava protetto e salvaguardato. L’ho conosciuto grazie a un capo ultrà. E, buddo, è stato Maradona a presentarmi Zola…”. I suoi miti femminili invece sono le compagne con cui ha giocato, dalla Vignotto alle danesi Augustensen e Hansen. “Quelle giocatrici non si vedono più. Avevano grandi personalità, io cercavo di rubare da loro”.

IL DOMANI E’ UN CHISSA’… Con la sua squadra di Sora è stata promossa in serie A Elite, ma il domani è sempre una corda sospesa nel vuoto. «Se continuo ancora non so. Devo parlare con la mia società. Quest’anno ho giocato poco e ho fatto 16 gol. Abbiamo avuto un sacco di infortuni ma abbiamo vinto stringendo i denti sul finale. Io mi alleno sempre col sorriso, prima o poi dovrò smettere di giocare, ma non sono stufa e conosco i limiti della mia età. So gestire i miei acciacchi. Mi alleno sempre col sorriso, tre volte a settimana, sono importante per il gruppo, sono da spogliatoio. Non mi piace litigare, sono una tranquilla, se c’è un problema ne voglio parlare. Cammino a testa alta e non ho mai detto alle spalle. Non mi piace e poi, tutto torna… Le mie compagne mi prendono in giro, dicono che ripeto sempre le stesse cose. Sarà l’età. Sto bene in mezzo ai giovani».

Il calcio è tutto, il tutto è calcio. Come una certezza ma senza garanzie. Però c’è. Un riparo e a volte una salvezza. «Il calcio mi ha dato tanto ma io anche ho dato tanto se non di più. Mi fa star male però che dopo tanti anni, tanti successi, non ci sia uno spazio per me per continuare a lavorare per il calcio femminile in Federazione. Qualcosa che assomigli a un lavoro. Dopo trentacinque anni di carriera, ho fatto la storia e sono una disoccupata del pallone. Ma in Italia funziona così, finché servi vai bene, quando non servi più si dimentica che sei esistita e arrivederci». A volte senza nemmeno un grazie. Ma se vedete una donna fare strada camminando su un pallone è sempre Antonella Carta, in formazione da quando è nata.