Sono 17 anni che gioco a calcio.
Sono 17 anni che trascorro tutte le mie domeniche lottando su quel campo verde.
Sono 17 anni che, con il borsone sulle spalle, corro agli allenamenti quasi ogni giorno, posticipando tutti gli altri impegni.
Sono Carolina e sono 17 anni che dedico la mia vita a questa grande passione, a questo gioco bellissimo, proprio come tante altre ragazze. Proprio come i nostri colleghi uomini.
A dire la verità è proprio con loro che ho iniziato a giocare a pallone, nelle piazze e nei parchi del mio paese. Correvo, sudavo, gioivo della stessa felicità di cui godevano loro.
Ma io ero una bambina e quando gli adulti mi vedevano giocare a calcio insieme ai bambini si realizzava nei loro occhi, ed immediatamente nelle loro parole, il più grande tabù della società moderna: “ma sei un bambino o una bambina?”. Ho sempre giustificato questo loro stupore, evaso dai filtri sociali e fuoriuscito con naturalezza anche da parte di chi ci si aspetterebbe più ritegno e giudizio. L’ho sempre giustificato proprio perchè, come i miei compagnetti maschi, anche io giocavo a petto nudo e mi mimetizzavo con
le corporature esili, premature ed omogenee di tutti, la maglia ben appallottolata in terra a formare uno dei pali delle porte. Ma avevo i capelli lunghi e i bambini mi chiamavano “lei”.
Lo stesso misunderstanding avveniva qualche anno dopo sui primi campi da calcio.
Iniziai a giocare in una società calcistica vicino al mio paese all’età di 7 anni e venni inserita nella squadra di pari età di soli maschi. Diciassette anni fa, infatti, sebbene non sia molto, non esistevano così tante squadre di calcio femminile come adesso. Sicuramente era già ben avviata la realtà dell’attuale Fiorentina femminile (all’epoca Giglio Calcio), ma si trattava di una società troppo lontana da me, che abitavo in un piccolo paesino nelle campagne fiorentine. Così, tenace e disinvolta, una volta arrivata al centro sportivo
mi cambiavo nello spogliatoio degli arbitri e fremevo dalla voglia di correre in quel campo tutto terra e sassi (che quando ne trovavo uno davvero grosso, mi riempivo il petto di fierezza e lo lanciavo oltre la rete, felice di aver salvato le ginocchia di un eventuale mal capitato).
Passai così i miei primi tre anni di questa grande e ancora attuale relazione con il pallone, fino a quando l’allenatrice del Giglio Calcio mi vide durante una partita e propose a mia mamma di farmi fare una prova nella squadra femminile del Firenze, dato che non avrei potuto continuare ancora molto a battermi con i ragazzi che fisicamente e muscolarmente stavano già cominciando a sovrastarmi.
Inizialmente non accolsi con grande gioia questo evento; in fin dei conti quella era la mia realtà, era bello farsi valere con i maschi, era stimolante dimostrarsi più forte a chi a bordo campo ti guardava con scherno e ti sottovalutava. Riempiva il cuore di un qualcosa che non riuscivo bene a descrivere, ma che mi permetteva di andare in campo e dimostrare.
Il calcio era il mio metodo di comunicazione migliore.
Ma con l’avanzare degli anni mi fu davvero proibito di continuare a praticare sport con i maschi e così, un po’ forzatamente, allargai i miei orizzonti e cominciai ad allenarmi a Firenze, in una squadra di tutte donne. Ricordo benissimo che il mio primo pensiero fu di grande stupore nel vedere quante bambine condividevano il mio stesso sogno, la mia stessa passione.
Ma la cosa più stupefacente di tutte è che c’erano anche ragazze più grandi di me che giocavano già da molto tempo e che militavano in serie A.
Subito mi si palesò davanti agli occhi la concretezza di ciò che fino ad allora era solo rimasto un pensiero: “Ecco cosa voglio fare da grande, voglio giocare in serie A!”.
Questa volta però i miei idoli, l’incarnazione di ciò che volevo diventare, non avevano più attributi maschili, non erano più Vargas, Fiore, Toni e Mutu, ma erano ragazze che proprio come me si cambiavano in spogliatoi scabri sotto le scalinate dell’impianto sportivo di San Marcellino, con il pavimento rosso e le tubature troppo vecchie, che creavano pozze di sapone e acqua sporca ogni volta che qualcuno si faceva la doccia. Alia Guagni e Giulia Orlandi giocavano nel mio stesso identico campo di terra, avevano il mio stesso identico completo di allenamento e condividevano il mio stesso identico spogliatoio.
Ho passato così i miei più begl’anni di calcio, dai 12 ai 18 anni, cavalcando le classifiche dei pulcini, dei giovanissimi e poi della primavera.
Ricordo ancora bene quando, piccine picciò, affrontavamo nei campi a 7 i temerari avversari maschi che ci battevano di tantissimo a zero. Per interi campionati. Ma noi covavamo rabbia, voglia di riscatto e soprattutto un sempre più crescente desiderio di far vedere il nostro valore, di dimostrare a tutti che a calcio ci sapevamo giocare pure noi.
Infatti non tardarono ad arrivare i complimenti, le chiamate nelle giovanili della nazionale, le vittorie regionali e poi anche quelle nazionali. Vincemmo scudetti, coppe regionali e prestigiosi tornei nazionali, battendo maschi e femmine ed alzando in cielo coppe traboccanti di sudore e amore, lacrime e sorrisi.
Ma c’è anche un altro ricordo vivido nei miei pensieri.
Avevo diciotto anni, ero ormai alla fine della mia carriera da liceale e davanti a me si apriva il vertiginoso abisso del “cosa fare della mia vita”. L’avvocato? La dottoressa? L’ingegnere? La professoressa? L’artista?
Per la prima volta mi resi conto che nel mio ideale di futuro lavorativo il calcio non esisteva.
Per la prima volta, involontariamente, ovvio, il calcio non era presente nei miei pensieri.
Mi spaventai, ricordo che letteralmente sobbalzai e mi impaurii di me stessa. Eppure niente era cambiato, la passione ardeva come prima, la voglia di giocare era la stessa, anzi, forse addirittura di più adesso che vincevamo tutto quello che c’era da vincere. Ma perchè allora nel mio futuro non vedevo il calcio? Ragionai molto a riguardo e capii che di fatto non potevo vivere di solo calcio, non potevo vivere soltanto di quella passione lì.
Così scelsi la mia strada universitaria, quella che mi avrebbe garantito un futuro solido dove di fatto poi avrei investito la maggior parte delle mie forze e del mio tempo. Ma nonostante ciò non ho mai smesso di giocare a calcio.
Allo stesso tempo però ho dovuto affrontare molte scelte che mi potessero portare a praticare questo sport con un minor impegno e così lasciai la nazionale ed andai a giocare in categorie inferiori dove il calcio non è “bello” come quello della serie A ma è il calcio serale, quello di chi si tiene le ultime energie della giornata per dedicarle al suo sport, quello delle lavoratrici, quello fatto un po’ per tutte le amanti del pallone.
Ed è proprio in questi ultimi anni, quelli in cui il calcio lo praticavo perchè non ne potevo fare a meno, ma per forza di cose, non era più la mia priorità, che ormai quattro anni fa mi arrivò la prima chiamata del presidente Tommaso Becagli.
Sapevo già dell’esistenza del Florentia, avevo seguito la sua nascita con entusiasmo e grande aspettativa, sapevo della ferrea volontà del presidente di voler entrare a far parte dei grandi del calcio nel più breve tempo possibile. Coglievo tutto lo scetticismo degli astanti, di chi seguiva gli sviluppi da lontano, ma qualcosa mi diceva che il suo progetto
era vincente.
La chiamata avvenne qualche giorno dopo la mia vittoria del Torneo delle Regioni che avevo conseguito con alcune giocatrici del Florentia. A quella finale aveva partecipato al caloroso tifo del pubblico anche il presidente Tommaso che poi mi avrebbe detto di essergli piaciuta e di conseguenza mi offrì di andare a giocare con loro il prossimo anno.
Il Florentia militava in serie C ma se avesse vinto sarebbe passata poi di fatto in serie B. E così avvenne.
Io, non soppesando abbastanza l’opportunità offertami, rifiutai, spaventata dall’impegno che una categoria come la serie B mi avrebbe portato e ferma della convinzione che purtroppo non avrei potuto vivere di solo calcio, che il mio tempo avrei dovuto spenderlo in altro, nella costruzione di una solidità diversa da quella che mi avrebbe offerto il calcio.
Questo rappresenta tutt’ora uno dei miei più grandi rimorsi.
Il Florentia infatti in quattro anni, dalla serie D arrivò alla Serie A, proprio come Becagli aveva predetto all’inizio del suo progetto.
È il 2019, avevo appena terminato il mio ennesimo anno di Serie C, ormai convinta che forse avrei dovuto smettere di giocare, avrei dovuto smettere di passare tutte le mie domeniche nei campi di calcio, sotto pioggia, sole torrido o bufere di neve, avrei dovuto, come tutte le altre mie coetanee non-sportive dedicare il mio tempo ad altri progetti; che
avrei dovuto smettere ogni giorno di preparare il mio borsone con calze, guanti, paracollo e maglie termiche e starmene al caldo del mio salotto, o dentro qualche locale; che avrei dovuto iniziare a lavorare per guadagnarmi la mia agognata indipendenza.
Ed ero anche molto arrabbiata con il calcio. Ero arrabbiata perchè gli avevo dedicato la mia intera adolescenza, i miei interi pomeriggi (così che poi le versioni di greco avrei dovute farle al mio rientro fino a notte fonda), gli avevo devoluto tutti i miei sentimenti, tutte le mie passioni. Il calcio era la mia espressione, in senso letterale. Che fosse rabbia o gioia, lo esprimevo con il calcio. Ma allora perchè fermarsi? Perchè fermarsi e non far parte
di tutto quel movimento che un giorno garantirà un futuro davvero solido per tutte le ragazzine che vivono della mia stessa passione? Perchè arrestare un sogno che è cresciuto con me fino ad ora? Perchè?
Ricordo benissimo che parlando con la mia migliore amica le dissi “se non posso più esprimermi nel calcio-quello-vero, se non potrò più sentire l’adrenalina nella scalata verso la vetta della classifica, se non potrò più credere in qualcosa di veramente grande, allora
smetto.”
Così, come per magia, arrivò nuovamente la chiamata del Presidente Becagli, e questa volta sapevo che non potevo per nessuna motivazione al mondo permettermi di lasciarmi sfuggire questa opportunità.
Sapevo di essere tanto indietro rispetto alle mie future compagne che militavano già da qualche anno in serie maggiori rispetto alla mia, sapevo che potevo ritenermi in colpa di quella mancata crescita calcistica che di fatto io stessa avevo determinato, sapevo che avrei dovuto sputare sangue e mangiare polvere per affrontare una preparazione e poi un campionato di serie A, sapevo le difficoltà a cui sarei andata incontro. Sapevo che era un salto nel vuoto, sapevo che sarebbe potuto essere uno scontro frontale con
qualcosa di enormemente più grande di me. Sapevo che i tanti anni passati in categorie minori avrebbero influito negativamente sulla mia resa. Lo sapevo. Ma io avevo ed ho ancora bisogno che il calcio sia il mio meotodo di comunicazione, sia la mia quotidianità, il mio ritmo cardiaco, ma che sopratutto sia IL futuro delle prossime generazioni.
Probabilmente non sarà il mio futuro, probabilmente non potrò vivere di questo, probabilmente avrei dovuto prendere altre decisioni.
Ma sono 17 anni che gioco a calcio e non è sicuramente questo il momento in cui smetterò.
Ho ancora bisogno di giocare e di credere in un futuro migliore.

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