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Storie di calcio: “Quella corazzata chiamata Torres”

Se c’è una cosa che possiamo dare per certo è che, quando qualcosa inizia, inevitabilmente ci sarà un momento in cui finirà, se non altro nella forma e nei modi nei quali è iniziata. Non è pessimismo, è il ciclo della vita, le leggi dell’energia, tutto è sempre in costante mutamento.

Anche questa storia a tinte rossoblu, quindi, ebbe il suo epilogo.
Come al solito l’identificazione di tale epilogo con un preciso momento è soggettivo e personale, io vi racconterò il mio.


Correva la stagione 2013/2014, da quattro stagioni portavamo il tricolore orgogliosamente sul petto, tra i quattro mori stampati in filigrana sulla maglia che tanto amavamo, senza che nessun’altra squadra fosse riuscita a strapparcelo, pur provandoci ve lo assicuro.

Difendevamo una maglia, un orgoglio, una regione, un popolo, una terra, orgogliosa ed accogliente che ci aveva stregato. Restiamo in tante, tutt’ora, sparse per il “continente” come direbbero sull’isola, esuli di quella terra che ci si era appiccicata addosso.

L’anno precedente era stato per me particolare, perché era il primo dopo essere “ritornata”, dopo l’esperienza a Udine, tra le fila del Chiasiellis, stagione comunque per svariati versi indimenticabile anche quella, perché ovunque vai trovi storie, persone, emozioni, condivisione, passione, e non so a voi ma sono queste le cose che mi tengono in vita.

Ritornai dunque, perché la Sardegna mi mancava, la Torres mi mancava, tornai e vissi gli anni successivi con una consapevolezza che prima non avevo. “Ti accorgi dell’importanza di qualcosa solo quando la perdi” dicono. Ecco, è ciò che accadde a me in qualche modo: allontanandoti conosci altri mondi, altri scenari, ti rendi conto delle cose che forse prima davi per scontate, e se torni, hai una consapevolezza che te le fa davvero apprezzare e godere. Io sono stata fortunata e sono potuta tornare ed è stato meraviglioso. Badate bene, io ho dato tutta me stessa per il Chiasiellis e ho amato quella gente e quella maglia tantissimo, ma posso certamente dire, che senza la Torres non sarei mai stata la giocatrice che sono stata, l’orgoglio di indossare quella maglia mi faceva attingere a risorse ed energie che non sapevo nemmeno di avere, mi faceva “buttare il cuore oltre l’ostacolo” come ci ripeteva Tore Arca. Penso sia questa sensazione che un Club, i dirigenti, gli allenatori, debbano cercare di creare in un ambiente, non si parla di soldi, di ingaggi o strutture, ma di senso di appartenenza, spontaneo e viscerale.

Ricordo attraversammo un mese infernale, nel quale, a causa degli impegni di Champion’s League e rinvii vari ci trovammo a giocare ogni 3 giorni, partite fondamentali per le nostre sorti.
Per la prima volta dopo tanto tempo ci trovavamo dietro, rincorrevamo il Brescia, che ci aveva battuto all’andata al Vanni Sanna, ed eravamo incalzate dal Tavagnacco, che voleva a tutti i costi almeno il secondo posto per rientrare in zona Champions.
Verona e Mozzanica erano le altre formazioni che tenevano il passo delle zone alte della classifica. Insomma, una bella volata, e noi sapevamo che sarebbe stato un tour de force ma che dovevamo soltanto concentrarci nel mantenere il mirino puntato sull’ultima di campionato, a Brescia.

In testa ci ripetevamo solo “brescia, brescia, brescia.”

Arrivare allo scontro diretto, proprio l’ultima giornata, a giocarci lo scudetto in casa loro, mantenendo il distacco di 2 punti. A scriverlo il copione non poteva essere tanto perfetto.

Dovevamo “solo” vincerle tutte, e ci attendevano ancora, tutti i big match contro Mozzanica, Verona (in casa) e Tavagnacco (fuori casa). Ogni nostra energia, fisica e mentale era focalizzata nell’ arrivare a Brescia ancora in corsa per la vittoria.

Non faceva che ripetercelo Manuela Tesse, dalla stagione precedente alla guida tecnica.

Non eravamo in grande spolvero, venivamo da una brutta batosta in Champions League contro le tedesche del Potsdam, eravamo stanche, avevamo poco ricambio.

Giocammo spesso sopra le forze, stringendo i denti tra acciacchi e infortuni, ma nessuna pensò mai e poi mai che questo potesse diventare un alibi per giustificare la mancata riuscita dell’impresa.

Una volta a Brescia sarebbe andata come doveva andare, ma non ci saremmo arrese prima, avremmo venduto cara la pelle e quel tricolore che c’era stampato sopra, ci saremmo regalate un’uscita di scena orgogliosa e degna del nome che portavamo.

Da martedì 15 Aprile a Domenica 11 Maggio (data di Brescia -Torres) giocammo 6 gare : a Napoli la prima, poi a Tavagnacco mercoledì 23, a Como Domenica 27, contro il Verona in casa mercoledì 30, Mozzanica sabato 3 maggio fino a quella di Brescia l’11 maggio.

Ricordo che fu devastante ma eravamo motivate e la vivemmo come una cavalcata entusiasmante e bellissima. Le ultime gare, tra l’altro non facili, contro Verona e Mozzanica non furono spettacolari e anzi le ricordo piuttosto sottotono e sofferte. Non ce la facevamo più, eravamo spremute e non solo fisicamente ma puntavamo sul fatto che una volta raggiunto l’obiettivo ci saremmo ricaricate per Brescia, e in fondo fu così credo, non puoi sentirti stanca quando ti giochi uno scudetto.

Ora sicuramente vi aspetterete che io vi racconti l’ultimo match, e invece vorrei raccontarvi quello che accadde a Tavagnacco nel primo scontro diretto tra due squadre che non volevano abbandonare il loro sogno. Volevano la Champions loro, noi rischiavamo in una sola gara di perdere tutto, sia la speranza del tricolore sia il secondo posto. “Mors tua vita mea”.

Fu una battaglia stupenda, che a raccontarla senza la testimonianza delle immagini si farebbe fatica a crederci. Non scesi in campo quel giorno, ricordo avevo la solita caviglia che da un po’ faceva i capricci e provai durante il riscaldamento: “ce la fai?” mi chiese Manu. “no” risposi con un peso enorme sullo stomaco. Ci sono partite nelle quali stringere i denti non basta, devi essere al 120% e io non potevo essere utile in quelle condizioni. Fare il bene della squadra spesso è anche sapersi mettere da parte quando sai che qualcuno può dare più di te. A fine gara finirono con me in panchina anche una Fuselli stremata e Giorgia Motta costretta ad uscire per via di un infortunio alla caviglia.

Tutto perfetto per una disfatta.

La gara, invece, fu rocambolesca, giocata a viso aperto da entrambe le squadre alle quali un pareggio non serviva a niente.

Nel primo tempo Bonetti sgancia un siluro da fuori area che si stampa sul palo e rimbalza sulla schiena di Thallman e si insacca. Andiamo sotto. Inziamo male.
Grazie a dio riusciamo a raddrizzarla prima di rientrare negli spogliatoi: Iannella risponde con un altro siluro ma nella porta opposta. Uno a uno. Si ricomincia.
Al 17′ del secondo tempo andiamo in vantaggio con Panico che insacca (forse di petto, forse di spalla) un cross dalla sinistra. Cinque minuti dopo il Tavagnacco si porta sul due pari con Brumana, pescata con un lancio lungo proprio dalla nostra Michela Rodella.

Tutto da rifare di nuovo, ma è bellissimo.

Dal 40′ della ripresa succede di tutto. Rigore a favore della Torres, il fallo c’è ed è netto ma il direttore di gara mostra clamorosamente il cartellino rosso alla giocatrice sbagliata. Le proteste sono veementi e durano qualche minuto, e quel minuto di troppo forse sarà la nostra salvezza, poi capirete perché.

Tornata la calma Panico non sbaglia e torniamo in vantaggio. Sicuramente in quel momento avremo anche pensato che fosse fatta, ma le friulane non mollano, è nel loro dna, e la posta in gioco è troppo alta. Al 47′ l’arbitro fischia un altro rigore, questa volta a favore del Tavagnacco, siamo stanche, stremate, il fallo di Tona ne è la prova lampante, Parisi trasforma.

Tre pari.

Siamo stanche noi sono stanche loro e questo pareggio non serve a nessuno.
Manuela si dispera, impreca contro tutti e contro il fato, noi in panchina siamo ammutolite, paralizzate, la disperazione è tangibile. Non è possibile.
Tutta questa fatica non servirà a nessuno ma soprattutto non servirà a noi.
Succede però una cosa indescrivibile quanto inaspettata, succede che, mentre noi fuori molliamo e ci abbandoniamo allo scoramento, qualcuno in campo ci crede, ci crede ancora.

È finita per tutti, manca forse un minuto, solo un miracolo può mantenere vivo il nostro sogno.

Un minuto, però la palla è nostra, proviamoci allora, mandiamo in qualche modo la palla più vicina possibile alla porta avversaria, dentro l’area di rigore. Panico controlla in qualche modo, una piccola Aurora Galli segue l’azione e chiede la palla, non viene accontentata, Sandy Maendly, mezzala mancina dal sinistro sopraffino arriva a rimorchio, Patrizia scarica, Yaya capisce e si sposta dalla traiettoria, Sandy scarica istintivamente una rasoiata all’angolino basso, calciando di prima intenzione con il destro. Il miracolo è compiuto.

Un insieme di movimenti istintivi e coordinati in maniera perfetta, e un tiro di prima con il piede debole, 5 secondi per un miracolo.

+5 segna la sovraimpressione di rai sport per quanto riguarda il recupero, 48′ e 25” segna il cronometro. Quasi non ci crediamo manco noi, ma è successo, ed esultiamo. Felici, stanche, rabbiose. Esultiamo e andiamo avanti.

Brescia, Brescia, Brescia.

Esultiamo e pensiamo : “Brescia arriviamo. Non sarà così facile.”

Come andò a finire poi è noto. Perdemmo a Brescia e le leonesse festeggiarono il loro primo scudetto, ma la festa e l’attesa che si creò per quella partita ne valse la fatica, ed era stato anche merito nostro, che avevamo deciso di crederci, davvero, fino alla fine.
Vennero da tutta Italia per crederci insieme a noi, per sostenerci, o per salutare con onore quella corazzata che lasciava il passo al destino, anche dalla Sardegna partirono e fu un emozione unica.
I tifosi bresciani, gli appassionati da tutto lo stivale..lo stadio era talmente pieno che tante persone rimasero assiepate fuori.
A fine partita la delusione era cocente, speravamo di completare l’impresa nell’unico modo possibile, vincendo, ma non accadde, e forse fu giusto così.

Ricordo che mi avvicinai alla rete e salutai le persone che erano lì per me, mi lanciarono una bandiera dei quattro mori, io me la misi sulle spalle e mi incamminai verso gli spogliatoi.

Mi voltai un’altra volta e guardai le giocatrici bianco blu festeggiare coi loro tifosi, di tutta quella confusione io non sentivo niente, ero avvolta in un silenzio assoluto, mi vidi lì in mezzo al campo, da sola, mi strinsi la bandiera al collo con orgoglio e pensai : le bandiere non si sventolano solo quando si vince e la mia sventolava alta e fiera anche in quel momento e rimasi ancora un po’ lì perché tutti la vedessero.


Provai un’emozione strana, malinconia, tristezza, orgoglio e gioia tutti insieme.
Era il passaggio di consegne e io decisi di restare ancora un po’ e godermelo.

Era stato un privilegio e un orgoglio difendere quella maglia, anche ora che ne uscivamo sconfitte, non provai il desiderio di essere dall’altra parte. Ero dalla parte giusta, la mia, l’unica possibile, e per me quella sensazione fu come una vittoria.

Onore ai vincitori e onore a chiunque si batta con tutte le sue forze fino davvero alla fine.

Giulia Domenichetti
Credit Photo: Florentia Calcio Femminile