Maria Siegrist Gabas è una delle protagoniste della stagione sorprendente del Filecchio Women in Serie C. Attaccante per natura, centrocampista per necessità, la spagnola ha dimostrato di sapersi adattare bene ai due ruoli molto differenti che l’allenatore, Francesco Passini, le ha affidato. Con il gol della scorsa domenica contro la Sassari Torres è arrivata a quota 9 in questo campionato. Siegrist è nata in Catalogna, a Lleida, dove fin da piccola ha accarezzato la palla rigorosamente a piedi scalzi perché dal contatto schietto e sincero con la terra catalizza, riceve, estrae pura energia creativa con cui nutre il suo spirito ribelle. La storia della lleridana, la cui parola d’ordine è libertà, è scandita da frasi pronunciate da Ramón e Maria Dolores, i nonni materni. A 28 anni Maria Siegrist ha già vissuto almeno tre vite tra Europa, America e Africa, dove ha lasciato un frammento di anima. Abbiamo avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata con Maria che ci ha raccontato con leggerezza e passione i momenti più importanti della sua vita.

Come hai iniziato a giocare a calcio?
“Ho iniziato a giocare a calcio con mio fratello ed i suoi amici. Quando ero piccola in Spagna non c’erano tante squadre femminili, allora giocavo con i ragazzi a scuola. A 11 anni l’attuale allenatore del Barça femminile, Lluis Cortés, mi ha vista giocare e mi ha chiesto di unirmi alla squadra di calcio che allenava in quel momento a Lleida.”

Com’è stato giocare a calcio in USA?
“A diciannove anni sono andata a studiare in America, alla Niagara University. Dopo un anno ero già stufa del clima freddo e ho chiesto il trasferimento in Florida, a Saint Leo, dove ho trovato un piccolo paradiso. Giocavamo due partite la settimana e lavoravamo tanto in palestra. Il calcio americano è atletico, veloce e sviluppato nella parte fisica. In Europa invece è più tattico e tecnico. Però la differenza più grande che ho trovato è la mentalità della società. Negli States credono che tutto sia possibile, ti dicono che se hai un sogno devi inseguirlo e che con il lavoro puoi arrivare dove vuoi.”

Perché sei andata in Africa?
“Sono andata in Gambia a lavorare come volontaria per una ONG per mettere alla prova me stessa. Volevo vedere se ero in grado di fare altro oltre che giocare a calcio. Sono partita con un fattore spagnolo con lo scopo di insegnare agli africani le tecniche moderne di agricoltura. Gli africani non volevano cambiare e non è stato facile insegnargli. Ma quando la terra che avevamo lavorato insieme ha dato tantissimi frutti è stato bellissimo, la comunione di pensieri e azioni è stata meravigliosa.”

Eri felice?
“Sì, ero molto felice. L’Africa è un posto in cui tornerò sicuramente perché ha bisogno di aiuto, ed io ho bisogno di lei. Le persone in Africa sono felici con quello che c’è: la natura, il sorriso e un po’ di tempo, che là scorre in modo più lento. Loro lo chiamano “african time”, il tempo africano. In Benin, così come in tutta l’Africa, vanno a un ritmo diverso, seguendo il sole. Dicono: “Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo”. Un giorno nel paese in cui vivevo in Benin organizzarono una partita di calcio per le donne e ci dissero che alle 18 si giocava. Così io e una mia amica siamo andate al campo a quell’ora, ma non c’era nessuno. C’era un sole fitto che ti friggeva la testa. Dopo circa un’ora, quando il sole era meno forte, è iniziata ad arrivare la gente tutta insieme, le donne e gli uomini. C’era una connessione fra loro, un modo africano di vivere il tempo.”

Hai giocato a calcio in Africa?
“In estate nel piccolo paese in Gambia, dove ho vissuto per sei mesi, giocano un torneo con il paese vicino. Loro non sono abituati a vedere le donne giocare a calcio, tantomeno una ragazza bianca come me. Il giorno del torneo tutte le donne si erano fatte belle e si erano disposte intorno al campo. Io invece chiesi di giocare e un mio amico mi mandò in una delle squadre. I miei nuovi compagni mi guardavano storto e si scambiavano sguardi di disapprovazione. Uno di loro si avvicinò a grandi passi, mi guardò male e mi disse: “Tu non sei nella lista, non giochi”. Mi portarono in una stanza, con quattro uomini che parlavano in africano. Ero sola con i quattro capi della tribù, ma io non capivo niente di quello che dicevano. Uno dei capi tribù mi osservò con occhi severi e poi disse: “Qui si gioca duro, se vuoi giocare ti adatti”. Accettai senza paura e la partita iniziò. Dopo appena cinque minuti mi fecero un’entrata durissima, sulla mia gamba c’era una riga di sangue. Resistetti e feci un assist molto bello. Alla fine della partita vincemmo 2-1. Nel paesino erano impazziti, non potevano credere che una ragazza bianca come me avesse giocato a calcio con loro in quel modo. Girava la voce che io avevo segnato, ma avevo solo fatto il passaggio per il gol.”

Ti piace scrivere, hai mai scritto di calcio?
“Ho scritto una lettera al calcio per esprimere la mia gratitudine. La prima frase è: “Gracias por encontrar primero un balón que la razón”. Prima ho incontrato un pallone e poi ho imparato ad avere consapevolezza di me stessa. Sono molto grata al calcio perché adesso sono a Filecchio e posso imparare un’altra lingua e praticare lo sport che amo. Per me lavorare come giocatrice è un sogno che è iniziato adesso e spero che non finisca presto. La vita sportiva è corta ma credo che la miglior versione di me debba ancora arrivare.”

Come ti sei trovata alla Sassari Torres?
“Alla Torres non mi sono trovata bene. Comunque penso che tutto succeda per una ragione, si può sempre imparare e si va avanti. Sono felice di essere arrivata a Filecchio perché abbiamo una squadra sana, che è la cosa importante per me.”

Al Filecchio hai legato con le tue compagne?
“Mi sono trovata bene con tutte le compagne, ma Laura Gargan è l’amica con cui ho legato di più. Quando ti trasferisci non conosci nessuno, non sai la lingua ed è tutto nuovo. Lalla mi ha aiutato tantissimo, mi ha toccato il cuore perché in quel momento ero più fragile. Lei ha avuto la pazienza di stare con me e insegnarmi l’italiano che ancora non conoscevo bene. Lalla è energia pura, stare con lei ti carica come la musica rap. A Pasqua mi ha portato dalla sua famiglia a Bologna, mi ha accolto e mi ha donato il suo tempo, il regalo più grande che una persona può farmi.”

Qual è il successo calcistico che ti ha dato più soddisfazione?
“La soddisfazione più grande che ho provato da quando gioco a calcio fu quando mio nonno venne per la prima volta a vedermi giocare. Ero nel Lleida e affrontavamo il Barça. In quell’occasione giocammo in casa nello storico e gigantesco stadio della città, un posto che per me è speciale. Mio nonno fece tutte le scale, uno scalino alla volta fino in cima. Segnai due gol e finita la partita andai subito da lui che mi disse: “Non corri un cazzo, ma sei brava”. Gli ho risposto che quello che contava era che io avevo segnato. È stata un’emozione forte fare gol nello stadio della mia città contro il Barça. Quei due gol li ho segnati per lui che adesso non c’è più.”

Avevi un rapporto speciale con tuo nonno?
“Quando mio nonno Ramón è morto ho passato un periodo molto difficile della mia vita, era il mio migliore amico. Cinque mesi dopo ci ha lasciati anche mia nonna Maria Dolores. In quel momento non volevo fare niente della mia vita, ho smesso anche di giocare a calcio. I miei nonni sono state le persone più speciali per me, mi hanno dato tutto. Quando se ne sono andati è cambiato il mio modo di pensare. Io gioco a calcio per rimanere con la vita, per rimanere con i miei nonni. Loro due mi hanno insegnato a dare tutto il mio amore. Mi viene da piangere, ma come diceva mia nonna: “piangere è acqua e acqua è vita”.”

Hai un ricordo particolare dei tuoi nonni?
“A mia nonna Maria Dolores piaceva tantissimo portare “la joya”. C’era un gioiello che non toglieva mai: un bracciale dorato che ha una piastrina rotonda con la Vergine Maria da un lato e le sue iniziali “MD” dall’altro. Ho un ricordo unico riguardo a quel gioiello. Quando avevo 16 anni mi volevo tatuare un quadrifoglio sul polso. Andai al negozio di tattoo, ma non c’era una foglia che mi piacesse, allora trovai un sole e scelsi quello. Dieci anni dopo, quando mia nonna morì, presi il suo bracciale d’oro e lo indossai al braccio sinistro. Un giorno mentre stavo sdraiata in spiaggia notai che la piastrina dorata combaciava alla perfezione con il sole tatuato sul mio polso sinistro. Mi fu subito chiaro che si era creata una connessione, la mia anima e quella di mia nonna si erano unite di nuovo.”

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