Francesca Gargiulo nasce a Milano il 20 Marzo del 1989.
La passione per il calcio e dello stare a contatto con le persone la porta a studiare psicologia prima all’Università Cattolica di Milano, poi alla Bicocca, sempre a Milano.
Nel corso della sua vita, pur giovanissima, prende parte a diverse attività educative, sportive e non solo. Tra queste si possono elencare Comunità Nuova, Uyolo, Grootboos Foundation,…Grazie a quest’ultima trascorre l’estate 2016 in Sud Africa come esploratrice del cacio femminile estero.
Attualmente studia un master di “Psicologia dello Sport” ad Amsterdam, mentre nel tempo disponibile allena una squadra di calcio femminile, lo Sc Buitenveldert.

Da cosa ti è nata la passione per giocare a calcio? E quella di allenare?
Mi è sempre piaciuto giocare a calcio, mi è quindi impossibile pensare a un momento preciso che ha scatenato questa passione!  Posso dirti però che per me non è stato come per la maggior parte delle calciatrici che conosco, una passione tramandata dal papà o dai fratelli, ma bensì da mio nonno, che, la domenica pomeriggio, quando andavo a trovarlo fuori Milano e quando ancora trasmettevano le partite di calcio in televisione, mi prendeva sulle sue ginocchia e insieme guardavamo la Juventus. Ebbene sì, una milanese che tifa la Juve… ogni volta che lo racconto qui ad Amsterdam non ci vogliono credere!
Dopo anni di Karate, quasi per caso sono venuta a sapere di una squadra di calcio femminile, il Formativo Milan ed è lì che ho iniziato a giocare. Tra un infortunio al ginocchio e gli studi, che con il tempo si facevano sempre più impegnativi, la passione per questo sport non si è mai spenta. Al contrario, sto cercando di fare di questa passione la mia professione unendo l’interesse per la psicologia, in cui ho conseguito una laurea magistrale presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, alla passione per lo sport.
Questi miei due grandi interessi mi hanno portata fino a qui, ad Amsterdam, dove sto seguendo un Master in Human Movement Sciences con l’indirizzo in Sport Psychology per diventare, alla fine di questo percorso, una Psicologa dello Sport.
La passione per l’allenare nasce in gran parte dalla mia voglia di trasmettere ai più giovani quello che in tanti e lunghi anni di calcio ho imparato, trasmettendo sul campo non solo tutte le mie conoscenze tecniche e tattiche di questo sport, ma anche provando sempre a sperimentarmi come futura psicologa dello sport, cercando quindi di curare le relazioni, di essere attenta alle dinamiche che si verificano nella squadra, sia in campo che fuori da esso, di tenere alta la motivazione tra i ragazzi/e… Potrei elencare molti altri aspetti  psicologici ai quali ho cercato e cerco tuttora di prestare molta attenzione. Il mio carattere estroverso e la mia voglia di conoscere le persone mi hanno sempre portata a stare in contatto con gruppi di bambini e ragazzi, prima come animatrice, poi come educatrice in diversi progetti sportivi che Comunità Nuova (www.comunitanuova.it) porta avanti a Milano con ragazzini delle scuole elementari e medie soprattutto dei quartieri più degradati; queste esperienze mi hanno permesso di accrescere le mie competenze relazionali e professionali con i gruppi e sperimentare tutte le dinamiche ad essi connesse.

A fine giugno sei partita per un progetto di calcio in Africa. Racconta un po’ del tuo progetto lì. Come mai l’Africa? Com’è stata la tua esperienza? La consiglieresti?
Il mio progetto di tesi magistrale era titolato “Processi individuali e sociali nella pratica dello sport femminile: il caso del calcio”. All’interno del mio lavoro ho dedicato una parte ai programmi di promozione e sviluppo del calcio femminile presenti in Italia e all’estero.
La Football Foundation, branchia della Grootbos Foundation (www.grootbosfoundation.org), tra i molti progetti che organizza ne ha uno ad hoc sul “female empowerment” attraverso il gioco del calcio. Sono quindi voluta partire per conoscere più da vicino questo progetto interessante e vivere un’esperienza di volontariato che mi portasse ad accrescere le mie competenze da allenatrice e, al tempo stesso, a crescere come persona. Il Sudafrica è un paese affascinante, dai mille contrasti sia dal punto di vista della natura che della società. Penso alla meravigliosa Cape Town, città racchiusa tra le “braccia” dell’enorme Table Mountain e che ha ai suoi piedi lunghe distese di spiagge bianche, ma anche città caotica e che sembra non dormire mai, nella quale convivono molti gruppi etnici che ancora oggi faticano a relazionarsi e a convivere tra loro, ma che rendono questo posto così diverso e così interessante.
Uno degli obiettivi della fondazione è proprio quello di portare ad abbattere le barriere linguistiche e sociali presenti tra i sudafricani, cercando di far crescere i bambini senza pregiudizi e facilitando la convivenza e l’incontro tra i diversi gruppi etnici che popolano questo affascinante paese.
Fare volontariato coniugandolo con le proprie passioni è un’esperienza che senza dubbio consiglio a chi abbia voglia di conoscere un nuovo paese, la sua cultura, le sue usanze, le persone che la abitano. Non mancheranno emozioni forti, come visitare le township, zone delle città che durante l’apartheid erano destinate ai solo neri, tutt’ora cittadine molto povere fatte di case in lamiera, o allenare bambini/e che giocano a piedi nudi perché non hanno l’abbigliamento sportivo adatto… Ma le emozioni forti sono anche quelle che fanno sorridere il cuore, come attraversare le township e dover spegnere la macchina perché gruppi di bambini ballano in mezzo alla strada, anche senza musica ma cantando a squarciagola; andare in giro per il paese e sentire urlare “couuuuch” dai bambini che ti riconoscono e ti sorridono, improvvisare partite di calcio con palloni fatti di sacchetti di plastica… Ammetto che io sto già pensando a dove andare la prossima estate, a vivere un’altra esperienza di vita vera come quella che ho vissuto i mesi scorsi.


Credi fortemente nella diffusione del calcio femminile in Italia. Cosa pensi che manchi per portarlo a livelli migliori? O cosa bisognerebbe cambiare?
In questi anni mi sono data molto da fare, nel mio piccolo, a favore della promozione e della diffusione del calcio femminile, sia con il mio progetto di tesi, che vuole essere uno studio sui progetti presenti e che possono essere presi come modello per la creazione di nuovi programmi, sia presso la società per la quale ho allenato due anni, l’ASD Arca (www.asarca.it) formando due squadre di ragazzine e invitando altre società ad aprire squadre di calcio femminile, poiché ci siamo accorti, grazie ai due open day che abbiamo organizzato, che la domanda c’è ed è anche notevole, ma è l’offerta che è scarsa.
Penso che a Milano, realtà che conosco molto bene essendoci nata e cresciuta, manchino le opportunità per le bambine di sperimentarsi in questo sport e di conseguenza di praticarlo. Le società maschili che accettano le iscrizioni di bambine nelle loro squadre non sono molte, specialmente se non hanno 5-6-7 anni, e squadre prettamente femminili, come sappiamo benissimo, ce ne sono poche e la questione logistica dell’accompagnare le bambine agli allenamenti è per i genitori motivo di deviazione su altri sport più vicini a casa o praticati in orario extracurriculare nelle scuole stesse, come la pallavolo, la ginnastica artistica o la danza.
Qui ad Amsterdam la realtà è diversa, le bambine che praticano questo sport sono un’infinità, la sola società
Sc Buitenveldert (www.buitenveldert.com), società per la quale sto allenando una squadra femminile under 15, ha 34 squadre femminili, per ogni categoria ci sono dalle 3 alle 4 squadre, e per i primi anni di calcio le squadre sono miste. I bambini crescono con una mentalità diversa e nelle scuole si pratica il calcio tra le tante attività sportive durante l’ora di educazione fisica. Le bambine possono quindi sperimentarsi con questo sport senza dover lottare durante gli intervalli in giardino con i maschi di pari età che le snobbano e farsi accettare nel gruppo, cosa che succede in Italia solo se sei già brava, sennò devi andare a giocare con le altre bambine a nascondino o con la corda, o con le Barbie.
Due settimane fa sono andata a vedere Ajax-FC Twente femminile, mi ha impressionata il numero di famiglie presenti sugli spalti, bambini e bambine con la maglia della squadra, la tifoseria con cori, bandiere e tamburi, centinaia di bambine con le magliette di calcio delle società di calcio per le quali giocano, a bordo campo a seguire la partita, attente e divertite… Mi sembrava di sognare.
In Italia, il percorso per abbattere gli stereotipi e i pregiudizi sul calcio femminile è ancora lungo, ma le cose stanno cambiando, molte società stanno lavorando seriamente su questo e, con le loro attività di marketing e di formazione, stanno portando gli italiani ad avvicinarsi a conoscere e a seguire il calcio femminile.

Invece in Africa il calcio femminile com’è?
In Africa, il calcio femminile è ahimè, ancora meno sviluppato di quello italiano. Solo le ragazzine che abitano nelle grandi città e che quindi hanno la possibilità di trovare una squadra possono giocare a calcio, hanno una chance di essere osservate e scelte per società di serie maggiori e per la nazionale. Nei paesi fuori dai grandi centri abitati, le bambine si devono accontentare di giocare per strada o a scuola, se i compagni glielo permettono. La fondazione presso la quale sono stata quest’estate opera nelle due cittadine di Gansbaai e Hermanus, organizza partite con le altre (poche) squadre di calcio della provincia del Capo Occidentale e ogni qualvolta nota ragazzine particolarmente brave le segnala alle rappresentative provinciali, trampolini di lancio per la nazionale di calcio. Non è però così semplice per le bambine giocare a calcio, le barriere culturali sono molto forti e nei paesi è ancora molto forte l’idea che le donne debbano svolgere tutti i lavori domestici, dopo la scuola molto spesso si trovano quindi a dover svolgere tutta una serie di attività in casa perché le mamme sono a lavoro. Uno dei motivi che non permette lo sviluppo del calcio femminile in questo paese è anche l’abbandono sportivo delle ragazzine nel periodo dell’adolescenza, inoltre il tasso di età di una prima gravidanza è molto basso e tantissime ragazze fanno figli anche se molto giovani, a tredici, quattordici anni.

Lo scorso anno ti sei laureata in Psicologia a Milano. Ora sei ad Amsterdam per un master di psicologia dello sport. Come vorresti vedere realizzati i tuoi sogni e quali piani hai per il futuro? Il calcio è tra questi?
Come dicevo prima, da qualche anno a questa parte sto facendo della mia passione per lo sport e in particolare per il calcio, la mia professione. Terminato il Master vorrei lavorare in una società sportiva come Psicologa dello Sport, ad oggi mi appassiona molto studiare e osservare le dinamiche di gruppo che esistono nelle squadre, dalla relazione allenatore-giocatore, agli stili di leadership degli allenatori e dei giocatori, alla coesione del gruppo e all’efficacia collettiva che se positiva porta al miglioramento della performance della squadra…
Il calcio, sport e realtà che conosco meglio delle altre, è l’ambito nel quale vorrei lavorare. Mi interessano i gruppi, trovo molto affascinante e sfidante il lavoro che viene svolto dagli psicologi dello sport con atleti professionisti e non, che svolgono sport di gruppo o sport singoli, con l’obiettivo del miglioramento della performance sportiva attraverso lo sviluppo e l’accrescimento della persona, prima che della disciplina sportiva di appartenenza.
Mi affascinano molto anche i progetti con i bambini, non escludo, in futuro, di indirizzare la mia professione verso programmi nelle scuole volti allo sviluppo dello sport per il benessere del corpo, ma soprattutto della psiche.