Questa vicenda, quello della maternità è in realtà un nervo scoperto, visto che la pratica di pretendere dalle atlete la firma di “clausole anti-gravidanza” non è stata ancora debellata. “Non sono poche le denunce delle atlete a riguardo – dice Luisa Rizzitelli di Assist, il sindacato delle sportive – In molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l’espulsione immediata dalla società e il rischio non poter più tornare a gareggiare”.

Sullo stesso chiodo batte anche la Idem: “Esiste tutto un sommerso di cui veniamo a conoscenza solo quando la gravidanza viene portata avanti. Io ho fatto le Olimpiadi incinta e da puerpera e per non saltare le gare ho messo in piedi un’organizzazione molto articolata, perché c’è un vuoto di norme. Il Coni dà delle direttive per quanto riguarda la maternità delle atlete, ma solo poche federazioni le hanno recepite, ad esempio congelando il ranking nel periodo in cui un’atleta è ferma per gravidanza o maternità”. Il caso di cronaca più recente è quello di Nikoleta Stefanova, campionessa italiana di tennis tavolo, che per essersi assentata dai ritiri previsti dalla Federazione italiana tennis tavolo in seguito alla maternità ha subito l’esclusione dalle Olimpiadi di Rio. Con il risultato che l’Italia non avrà atleti in gara per questa disciplina.

Risolvere il problema non si presenta però affatto facile. Sono in molti a credere che il sistema sportivo, per come è oggi strutturato, non avrebbe le risorse necessarie per garantire un contratto per tutti. Il professionismo porta con sé oneri a volte insostenibili per le piccole società sportive, che però al momento sono aggirati con pagamenti fuori busta, spesso spacciati per rimborsi spesa. Secondo Luisa Rizzitelli il nodo è proprio quello del non considerare lavoro quello che invece lo è di fatto: “Pagare o meno i contributi non è una questione di genere femminile o maschile. Questo vale per tutti e non può essere lasciato a discrezione di chi gestisce le società”.

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