La fotografia che immortala il paradosso forse meglio di qualsiasi altra è quella datata 12 settembre 2015. A conclusione della finale degli Usa Open Flavia Pennetta e Roberta Vinci si abbracciano attraverso la rete del campo di Flushing Meadows. Il mondo del tennis applaude la bravura delle due atlete italiane, ma forse non sa di inchinarsi al cospetto di due dilettanti. Sì, perché se è vero che il conto in banca delle due campionesse non è certo quello di un qualsiasi sportivo amatoriale, formalmente sia Pennetta che Vinci non sono delle professioniste. Colpa di una legge che di fatto vieta alle donne, anche alle più brave e apprezzate dal pubblico, una carriera nello sport.

Josefa Idem, ex canoista e campionessa olimpica, ora senatrice e per brevissimo tempo anche a capo del Dipartimento allo sport della presidenza del Consiglio, la spiega così. “Non importa se ti alleni per una o dieci ore al giorno per preparare una gara, la fatica è la stessa dei nostri colleghi uomini ma a differenza di loro restiamo solo delle dilettanti”. Secondo la legge 91/81 infatti, che in Italia regola il professionismo sportivo, esclusivamente chi pratica calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo viene riconosciuto – e tutelato – come professionista. Ma interessa solo gli uomini, perché nessuna di queste discipline ha una categoria femminile. Non solo, ora anche federazioni di motociclismo e pugilato hanno abolito la categoria “pro”.

Spesso si attribuisce questa mancanza all’assenza di grandi numeri. Ma non è sempre così. Se consideriamo sport come la pallavolo, dove una categoria pro non esiste affatto, le donne tesserate sono molte più degli uomini: 279.893 contro gli 88.050 maschi (dato Legavolley 2014). Il caso è esemplare. Il campionato femminile infatti è diventato un appuntamento fisso sui canali tematici, con un largo seguito di pubblico: la serie A1 è trasmessa su Rai Sport e la media di audience nella stagione 2014-15 è stata pari a 146mila spettatori, con punte di 240mila in occasione delle finali scudetto. Mentre la semifinale Italia-Cina (Mondiali 2014), trasmessa su Rai 2, registrò addirittura 4 milioni 436mila spettatori, pari al 17,88% di share. Eppure ancora non si parla di professioniste.

Nel nuoto il numero di tesserati uomini e donne è quasi pari (su 149.411 atleti il 45% sono donne, dati Fin 2016) senza contare il successo mediatico raggiunto da alcune star come Federica Pellegrini o Tania Cagnotto. Caso a sé, invece, quello della Ginnastica dove su 117mila tesserati l’89% sono donne, anche se qui la storia insegna che non bastano gli ori per guadagnarsi un passaggio in televisione – chi ricorda la vittoria ai World Cup di Pesaro tenutasi questo aprile che ha qualificato ben 12 delle nostre atlete azzurre a Rio 2016?

Per gli sport considerati più maschili i numeri sono ancora, ovviamente, favore degli uomini, ma davvero basta? Consideriamo la situazione del calcio in Italia, dove la presenza di giocatrici è esigua: solo 22.564 contro 1.087.244 uomini (dati Figc 2016).
Ma dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante crescita, +5% annuo, contro il crescente disamore del dilettantismo maschile, che negli ultimi 6 anni ha perso circa il 17%.

“Da quando ho iniziato a lavorare non è cambiato molto e le disparità sono rimaste le stesse”, conferma Donatella Scarnati, voce storica della Rai che dal 1978 segue il calcio per la tv pubblica. Nella sua lunga carriera che l’ha portata ai vertici di Rai Sport, dove ora è vice direttore, ha dovuto affrontare spesso la questione del dilettantismo: “Il problema è più ampio direi. Sui campi da calcio, come nelle cabine di regia, le donne sono ancora viste come mosche bianche. Se c’è maschilismo? Purtroppo sì, ma questo è un problema che riguarda un po’ tutto il mondo del lavoro”.